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Nell’articolo dal titolo “Riservisti in fuga, l’esercito israeliano mai così in crisi”, pubblicato il 16 aprile 2025 sulla rivista israelo-palestinese +972 Magazine, Meron Rapoport analizza la profonda crisi che sta attraversando l’esercito israeliano, legata al drastico calo della partecipazione dei riservisti al servizio militare.

Il fenomeno del rifiuto di prestare servizio, noto anche come “cessazione del volontariato”, si è intensificato notevolmente rispetto al passato, coinvolgendo non solo la sinistra radicale ma anche fasce più ampie della popolazione israeliana. Secondo Rapoport, a partire da marzo 2025, le presenze tra i riservisti sono scese a circa il 60%, se non meno, rispetto al picco del 120% subito dopo l’attacco del 7 ottobre 2023. Questo calo si tradurrebbe in oltre 100.000 riservisti assenti, un numero ritenuto “enorme” e potenzialmente in grado di compromettere la prosecuzione della guerra.

L'autore sottolinea che le motivazioni alla base del rifiuto sono complesse e variegate: sfiducia verso la leadership politica, stanchezza emotiva, perdite economiche significative, ma anche motivazioni etiche. Movimenti come Yesh Gvul e Soldati per gli ostaggi riportano centinaia di casi di obiezione, sebbene le punizioni siano rare: solo un riservista è stato condannato di recente.

Personaggi come Tom Mehager e Yuval Green parlano di un nuovo tipo di “rifiuto grigio-ideologico”, meno legato a ideologie pacifiste e più a un senso di disagio verso gli obiettivi della guerra e l’inerzia del governo nel risolvere la questione degli ostaggi.

L’articolo riporta anche una crescente visibilità mediatica del movimento dei refusenik, con interventi di madri di soldati, ex giudici come Ayala Procaccia, e sociologhe come Yael Berda, che collegano il fenomeno alla perdita di fiducia nello Stato e al rigetto del discorso nazionalista estremo.

In conclusione, Rapoport sostiene che, pur non avendo ancora piegato l’apparato militare, la diserzione dei riservisti sta minando le fondamenta del concetto di “esercito del popolo” su cui Israele ha sempre fatto affidamento, alimentando un clima di sfiducia, disperazione e ricerca di alternative all’interno della società israeliana.

https://ilmanifesto.it/riservisti-in-fuga-lesercito-israeliano-mai-cosi-in-crisi
In questo articolo dal titolo "Imboscata a Mohsen Mahdawi, studente della Columbia", Marina Catucci racconta l’arresto di Mohsen Mahdawi, studente 34enne della Columbia University e noto attivista pro-palestinese. Mahdawi è stato fermato il 14 aprile 2025 dalle autorità dell’immigrazione statunitense (ICE) mentre si trovava a un colloquio per il processo di naturalizzazione. Nonostante non avesse precedenti penali e fosse titolare di una green card, è stato improvvisamente trattenuto in un centro di detenzione a Colchester, Vermont.

Secondo Luna Droubi, una dei suoi avvocati, si tratta di una strategia ricorrente delle autorità: arrestare attivisti e trasferirli in giurisdizioni più conservative per ostacolare la difesa legale. Infatti, il giudice federale William Sessions ha emesso un’ordinanza restrittiva per impedirne l’espulsione o il trasferimento.

Gli avvocati denunciano che l’arresto sia una rappresaglia politica per le attività di Mahdawi a favore della causa palestinese e un tentativo incostituzionale di zittire le voci critiche sulla guerra a Gaza. L’anno precedente, Mahdawi era stato tra i leader delle proteste filo-palestinesi alla Columbia University, dove aveva co-fondato la Società studentesca palestinese e la coalizione Columbia University Apartheid Divest.

Pur essendo attivista, Mahdawi aveva lasciato le attività organizzative nel marzo 2024, poco prima dell’occupazione della Hamilton Hall, per proteggere la sua posizione di immigrato e per coerenza con il suo credo buddista. In passato aveva anche presieduto la Columbia University Buddhist Association.

Infine, l’articolo si chiude ricordando una testimonianza emotiva rilasciata da Mahdawi nel programma “60 Minutes”, dove parlava della sua infanzia in Cisgiordania e dell’uccisione del suo miglior amico da parte di un soldato israeliano, sottolineando il suo attuale impegno per una pace basata sull’amore e non sull’odio.

https://ilmanifesto.it/imboscata-a-mohsen-mahdawi-studente-della-columbia
Nell’articolo dal titolo "La guerra di Israele all’acqua: Gaza ha sete e muore lentamente", pubblicato su il manifesto il 16 aprile 2025 e firmato da Michele Giorgio, si denuncia la gravissima crisi idrica che sta colpendo la Striscia di Gaza, descritta come una vera e propria emergenza umanitaria, se non addirittura un crimine di guerra.

L’autore evidenzia come i continui bombardamenti israeliani abbiano distrutto o danneggiato oltre 1.700 chilometri di condutture, rendendo inutilizzabile l’85% della rete idrica. La situazione è particolarmente drammatica nel nord della Striscia, a Gaza City e nei suoi sobborghi come Shajaiya, dove l’accesso all’acqua potabile è praticamente azzerato. Gli abitanti sono costretti ad affrontare file estenuanti ai punti di distribuzione e molti ricorrono a fonti contaminate o alla raccolta della pioggia per sopravvivere.

Giorgio descrive testimonianze di civili che camminano chilometri per ottenere pochi litri d’acqua, mentre i valichi restano chiusi e gli aiuti umanitari non riescono a entrare. Secondo il Comune di Gaza, si è ormai superata la soglia dell’emergenza: si rischia una catastrofe.

La situazione è aggravata dal taglio dell’elettricità da parte di Israele, che impedisce il funzionamento degli impianti di desalinizzazione. L’unico impianto attivo nel nord è stato colpito da un raid aereo a gennaio, e quello nel sud è stato spento a marzo per mancanza di energia. Come spiega Juliette Touma dell’UNRWA, senza energia non è possibile desalinizzare, e quindi si è costretti a bere acqua contaminata. Rosalia Bollen dell’UNICEF segnala che circa 600.000 persone hanno perso l’accesso all’acqua potabile e che 1,8 milioni di abitanti (la metà bambini) hanno urgente bisogno di assistenza igienico-sanitaria.

I dati riportati nell’articolo indicano che oggi a Gaza si hanno a disposizione solo 3-5 litri d’acqua al giorno pro capite, ben al di sotto dei 15 litri minimi raccomandati dall’OMS. Prima del 7 ottobre 2023, la media era di 82,7 litri. A Rafah e nel nord della Striscia si è scesi rispettivamente sotto il 5% e il 7% di tale quantità.

Infine, Michele Giorgio riporta la denuncia della Relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese, che parla apertamente di crimine di guerra, accusando Israele di aver usato la sete come arma. Anche Michael Lynk, ex relatore ONU, afferma che impedire l’accesso all’acqua a una popolazione sotto assedio è una gravissima violazione del diritto internazionale.

https://ilmanifesto.it/la-guerra-di-israele-allacqua-gaza-ha-sete-e-muore-lentamente
Eppure, non mancano quelli che, come Alexandria Ocasio-Cortez o Bernie Sanders, continuano a coltivare l’illusione di poter “cambiare il sistema dall’interno”, riformando un partito – quello democratico – che è organicamente integrato nei meccanismi dell’impero. Questa illusione viene spesso ripresa acriticamente anche in Europa e in Italia, dove settori della sinistra guardano a queste figure come se incarnassero un’alternativa reale, quando in realtà operano entro i limiti rigidissimi di un sistema che non consente dissenso autentico. E come in ogni impero che si rispetti, ciò che non può essere detto, è anche ciò che conta davvero.
🇺🇸 L’IMPERIALISMO NON VA ALLE ELEZIONI: LA FALSA ALTERNANZA NEL CUORE DELL’IMPERO

Nel dibattito pubblico occidentale, e in particolare nei media liberal, la politica americana viene rappresentata come una lotta epocale tra due visioni del mondo: da un lato il progressismo democratico, dall’altro il nazionalismo reazionario trumpiano. Ogni elezione viene narrata come un referendum sul futuro della democrazia, della libertà, dell’ordine globale. Ma questa rappresentazione è, in gran parte, una costruzione ideologica funzionale al mantenimento dello status quo.

Il circo elettorale serve a mascherare ciò che non cambia mai: la struttura imperiale del potere americano. Cambiano i presidenti, cambiano i toni, ma restano intatti i pilastri fondamentali: il primato del complesso militare-industriale, il dominio della finanza globale, l’assoggettamento dei paesi non allineati. L’Impero non cambia volto, cambia soltanto voce.

Non serve negare che vi siano differenze tra Trump e Biden, o tra Repubblicani e Democratici. Ma si tratta perlopiù di distinzioni marginali: nei toni, nelle retoriche, nelle scelte tattiche. Su ciò che davvero conta – la continuità dell’egemonia americana, il sostegno all’apparato militare, la difesa degli interessi delle élite economiche – la convergenza è totale, trasversale, strutturale.

Trump non è un isolazionista, come spesso viene descritto. La sua visione è brutalmente transazionale: l’Europa non è un alleato, ma un cliente che deve pagare il prezzo della “protezione” americana. La NATO non è mai stata una vera alleanza tra pari, ma uno strumento attraverso cui Washington ha esercitato il proprio dominio sull’Europa. Trump non mette in discussione questa architettura: si limita a renderla più trasparente e brutale. Dove prima c’erano parole come “valori condivisi” e “difesa collettiva”, ora ci sono richieste di pagamento, minacce e logica aziendale. Non meno egemonia, ma più spudorata. La sua apparente apertura verso la Russia non nasce da debolezza o ignoranza, ma da una valutazione strategica: un’alleanza tra Mosca e Pechino rappresenta una minaccia esistenziale per la supremazia globale degli Stati Uniti. Meglio allora cercare un equilibrio con il Cremlino per poter concentrare le risorse contro la Cina e contenere l’Iran.

Dall’altro lato, i Democratici – con l’apparato clintoniano e obamiano in prima linea – perseguono un’imperialismo “liberal”, a volto umano, condito da diritti umani e campagne per la democrazia. Ma il risultato è lo stesso: bombe “progressiste”, sanzioni “etiche”, guerre per procura mascherate da doveri morali.

La complicità con l’apartheid israeliano è uno dei punti in cui l’ipocrisia bipartisan americana raggiunge il suo apice. L’amministrazione Biden ha cercato di salvare le apparenze, fingendo di prendere le distanze dalla politica apertamente genocida del governo Netanyahu, ma senza mai mettere in discussione l’alleanza strategica con Tel Aviv. Le dichiarazioni di “preoccupazione” hanno accompagnato, senza mai ostacolare, il continuo massacro del popolo palestinese: bombardamenti su Gaza, assedi, esecuzioni extragiudiziali, demolizioni di case, espulsioni. Trump, già nella sua prima amministrazione, aveva abbandonato ogni finzione: riconobbe Gerusalemme come capitale, spostò l’ambasciata, legittimò gli insediamenti illegali e promosse apertamente l’apartheid israeliano sotto la retorica dell’“accordo del secolo”. Entrambi, con modalità diverse, hanno garantito a Israele piena impunità: l’unico vero consenso bipartisan negli Stati Uniti è quello che si esercita sulla pelle dei palestinesi.

Chi continua a illudersi che le elezioni americane siano un reale bivio ideologico non fa che confermare quanto sia efficace la macchina di propaganda interna. Il vero dissenso, negli Stati Uniti, non si misura tra i due poli del potere: è ciò che viene sistematicamente marginalizzato, ridicolizzato, silenziato.
Hamas respinge la proposta di tregua che invita i gruppi palestinesi ad arrendersi

https://www.middleeasteye.net/news/hamas-rejects-israel-truce-proposal-palestinian-groups-disarm
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Cosa è successo sabato in Oman? Alcuni dettagli sui colloqui indiretti tra Iran e Stati Uniti (seconda parte)

Gli europei stanno anche valutando ulteriori misure per esercitare pressione sull'Iran, tra cui la designazione del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica come entità terroristica. Secondo quanto appreso dal Tehran Times, stanno attualmente cercando il sostegno dei singoli Stati membri prima di sottoporre la proposta al Parlamento europeo.

Inoltre, l'E3 sta pianificando di lanciare campagne di propaganda per creare una frattura tra Iran, Russia e Cina, nella convinzione che, con il potenziale risentimento dei due maggiori alleati dell'Iran, il Paese avrebbe maggiori ostacoli nel raggiungere un accordo con gli Stati Uniti.

Cosa aspettarsi
Sebbene i colloqui indiretti con l'Oman abbiano dato nuova linfa alla diplomazia, il futuro rimane ancora incerto. L'Iran, in particolare, fa fatica a fidarsi nuovamente degli Stati Uniti dopo l'abbandono del JCPOA da parte di Washington.

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Cosa è successo sabato in Oman? Alcuni dettagli sui colloqui indiretti tra Iran e Stati Uniti (prima parte)

L'Iran e gli Stati Uniti si sono incontrati sabato in Oman in modo indiretto, mentre le tensioni tra i due Paesi rimanevano latenti e la parte iraniana si avvicinava ai colloqui con cautela e profonda diffidenza. Il Tehran Times ha ottenuto nuove informazioni su quanto accaduto quel giorno e sulla possibilità di ottenere risultati concreti dal primo importante incontro tra i due Stati dopo diversi mesi.

I colloqui sono iniziati intorno alle 15:00 ora locale presso la residenza del Ministro degli Esteri dell’Oman Badr bin Hamad Albusaidi, che ha svolto il ruolo di intermediario. Da parte iraniana, Seyyed Abbas Araghchi e da parte americana, l'inviato speciale del presidente Steve Witkoff, erano presenti presso l'abitazione del diplomatico. Sono stati scambiati meno di 10 messaggi scritti, con Araghchi che ha consegnato il primo.

I due funzionari che accompagnavano le delegazioni hanno soggiornato nei rispettivi hotel. Witkoff, arrivato in Oman con due persone al seguito, una delle quali un esperto nucleare, ha scambiato i saluti con Araghchi mentre i due lasciavano le loro stanze al termine della sessione.

Ciò che è stato detto
Nei suoi messaggi, Araghchi ha dichiarato che l'Iran non sta partecipando ai colloqui indiretti per mettersi in mostra. L'obiettivo principale di Teheran è valutare la sincerità della parte statunitense e determinare la fattibilità di raggiungere un accordo, ha detto a Witkoff.

Araghchi ha sottolineato che l'Iran desidera un accordo vantaggioso per tutti. Non accetterebbe, in nessuna circostanza, di smantellare il suo programma nucleare. Tuttavia, ha affermato che il Paese sarebbe disposto ad adottare misure per fornire garanzie contro la militarizzazione delle sue attività nucleari. L'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) sarebbe l'unica entità esterna autorizzata ad accedere ai siti nucleari iraniani.

Ciò che Teheran vuole in cambio è la rimozione delle sanzioni su diversi settori. Una volta rimosse, gli Stati Uniti non potranno ripristinarle con altri pretesti.

Araghchi ha inoltre dichiarato che è necessario un quadro generale di accordo per la prosecuzione dei colloqui. Se gli Stati Uniti dovessero opporsi al quadro proposto dall'Iran durante la sessione iniziale, dovrebbero presentare una propria alternativa da sottoporre alla valutazione dell'Iran.

Witkoff, da parte sua, ha riconosciuto la necessità di Washington di fare delle concessioni. Non ha menzionato il potenziale smantellamento del programma nucleare iraniano, né ha fatto riferimento all'accordo originale, il JCPOA, da cui l'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è ritirato nel 2018.

Cosa succede in disparte
Un importante sviluppo rivelato al The Tehran Times suggerisce che gli Stati europei potrebbero tentare di sabotare i colloqui, poiché ritengono di dovervi partecipare.

Germania, Gran Bretagna e Francia sostengono che, essendo le uniche parti in grado o intenzionate ad attivare il meccanismo di snapback (in scadenza a metà ottobre e concepito per ripristinare le sanzioni ONU contro l'Iran pre-JCPOA), non dovrebbero essere tenute all'oscuro. Di conseguenza, stanno cercando di coinvolgere in qualche modo il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu nei negoziati, in modo da poterne influenzare il processo.

L'Iran, tuttavia, ha detto sabato agli Stati Uniti che spetterà a Washington assicurarsi che lo snapback non venga attivato.

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Un dirigente di Hamas ha dichiarato all’emittente "al-Jazeera":

La nostra delegazione negoziale è rimasta sorpresa dal fatto che la proposta presentata dall'Egitto includesse un testo esplicito riguardante il disarmo della Resistenza.

• L'Egitto ci ha informato che non ci sarà alcun accordo per cessare la guerra senza negoziare il disarmo della Resistenza.

• Hamas ha informato l'Egitto che discutere la questione delle armi della Resistenza è del tutto inaccettabile.


(Nella foto, l’unico momento in cui Hamas depone le armi)

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Quando Mosca bombarda, è una "strage di civili"; quando lo fa Israele, è un semplice "raid". Questo è il doppiopesismo ipocrita dei media occidentali: la gravità dei crimini dipende da chi li commette.
🇮🇱🇵🇸 ISRAELE OCCUPA CIRCA UN TERZO DELLA STRISCIA DI GAZA: AUMENTANO LE TENSIONI E LA CRISI UMANITARIA

Nell’articolo "Israel Has Taken Over About a Third of the Gaza Strip", firmato da Dov Lieber, Summer Said e Abeer Ayyoub e pubblicato sul Wall Street Journal il 15 aprile 2025, viene analizzata la crescente espansione dell’esercito israeliano all’interno della Striscia di Gaza, dove le forze di Tel Aviv hanno ormai assunto il controllo diretto di circa un terzo del territorio. Questo nuovo sviluppo segna un cambiamento significativo nella condotta del conflitto: da operazioni rapide e mirate si è passati a una strategia di occupazione territoriale prolungata, che sta generando profonde ripercussioni politiche, sociali e umanitarie.

Secondo quanto riportato, l’obiettivo dichiarato da Israele è quello di esercitare ulteriore pressione su Hamas per ottenere la liberazione degli ostaggi israeliani catturati durante l’attacco del 7 ottobre 2023. Ma dietro la retorica della sicurezza, molti analisti leggono una volontà esplicita di ridisegnare la geografia politica della Striscia, spezzandone l’unità e frammentandone il tessuto sociale. Ne sono esempio i corridoi militari – come il “Morag Corridor” nel sud e il “Netzarim Corridor” nel nord – che dividono Gaza in più zone scollegate, impedendo il movimento interno e ostacolando ogni forma di vita civile. Le forze israeliane presidiano queste aree stabilmente, trasformandole di fatto in territori occupati sotto sorveglianza permanente.

Nel frattempo, la popolazione palestinese continua a pagare un prezzo altissimo. Gli sfollati si contano a centinaia di migliaia, costretti a lasciare ripetutamente le proprie abitazioni in cerca di sicurezza che spesso non esiste. Le Nazioni Unite stimano che circa due terzi del territorio di Gaza siano oggi soggetti a ordini di evacuazione o considerati inaccessibili. La situazione umanitaria è al collasso: mancano cibo, acqua potabile, cure mediche, elettricità. E mentre si parla di una possibile tregua mediata dall’Egitto – che includerebbe 70 giorni di cessate il fuoco, il rilascio di alcuni ostaggi e prigionieri e un alleggerimento del blocco – lo stallo negoziale persiste. Hamas rifiuta di accettare il disarmo richiesto da Israele, che nel frattempo continua a rafforzare la sua presenza armata sul terreno.

In questo quadro, l’occupazione israeliana di vaste porzioni della Striscia appare sempre meno come una fase tattica e sempre più come un’imposizione duratura. Per il popolo palestinese, la prospettiva è quella di un futuro frammentato, militarizzato, sotto assedio permanente.

https://www.wsj.com/world/middle-east/israel-has-taken-over-about-a-third-of-the-gaza-strip-9e82d2ea
🇮🇱 NETANYAHU, "NEMICO INTERNO": EX CAPO DELL’ESERCITO ISRAELIANO CHIEDE LA SUA RIMOZIONE

L’ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Dan Halutz, ha espresso dure critiche contro il primo ministro Benjamin Netanyahu, definendolo “un nemico che rappresenta una minaccia diretta” per la sicurezza di Israele. In un’intervista al canale israeliano Channel 12, Halutz ha affermato che Netanyahu dovrebbe essere “fermato o catturato”, chiarendo di non intendere un’eliminazione fisica, ma la sua rimozione dal potere con mezzi legali.

Il partito Likud, guidato da Netanyahu, ha reagito con forza, accusando Halutz di incitamento alla violenza e minaccia alla democrazia. In un comunicato, il Likud lo ha definito “il capo di stato maggiore più fallimentare della storia dell’IDF”.

Halutz è anche tra i firmatari di una petizione sottoscritta da oltre 1.500 soldati ed ex ufficiali israeliani, tra cui l’ex primo ministro Ehud Barak e altri generali di alto rango. La petizione chiede al governo di dare priorità al rilascio dei prigionieri israeliani detenuti a Gaza, anche se ciò comportasse la sospensione delle operazioni militari. I firmatari provengono da varie unità delle forze armate, incluse truppe corazzate, paracadutisti, fanteria e membri dell’intelligence.

Le critiche a Netanyahu si sono accentuate, con l’accusa di mettere a rischio la vita degli ostaggi israeliani per la sua riluttanza a negoziare un cessate il fuoco con Hamas. Alcune fonti riportano che Netanyahu abbia istituito un team per ostacolare qualsiasi accordo di scambio prigionieri, suscitando indignazione tra le famiglie dei detenuti.

Il tutto si inserisce in un contesto di crescenti pressioni internazionali: la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di arresto contro Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant per presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità a Gaza, tra cui l’uso della fame come arma e attacchi deliberati contro civili.

Le parole di Halutz riflettono quindi un malcontento crescente tra le forze armate e l’opinione pubblica israeliana, che contestano la gestione del conflitto da parte del governo e le sue gravi ripercussioni sia interne che internazionali.

https://qudsnen.co/former-israeli-military-chief-says-netanyahu-should-be-captured/?amp
—❗️🇮🇱/ 🇸🇾 /🇦🇪 ULTIMA ORA: Il nuovo presidente siriano, Ahmad Al-Sharaa (Al-Jolani), ha incontrato ieri una delegazione israeliana ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti.

Secondo quanto riferito, le due parti hanno discusso la possibilità di una normalizzazione dei rapporti tra Siria e Israele, nonché degli investimenti degli Emirati nelle infrastrutture siriane.

@Middle_East_Spectator
Nell’articolo dal titolo “Gaza, 18 minuti per fuggire dall’ospedale. Poi i missili e le macerie” pubblicato su il manifesto il 15 aprile 2025, la giornalista Chiara Cruciati racconta l’attacco israeliano all’ospedale battista Al-Ahli di Gaza City, avvenuto nella notte tra sabato e domenica, alla vigilia della Domenica delle Palme.

Secondo quanto riportato, l’esercito israeliano ha concesso solo 18 minuti per evacuare la struttura prima di colpirla con missili, distruggendo quello che era l’ultimo ospedale funzionante nella città. Tre pazienti sono morti nel cortile: un bambino a causa del freddo e due adulti per mancanza di ossigeno. Testimonianze come quella di Yousef Abu Shakran, padre di un bimbo ustionato, evidenziano il dramma umano dell’attacco, con il padre che racconta le condizioni disperate in cui ha dovuto portare via suo figlio tra le macerie e senza sapere dove cercare aiuto.

Israele ha giustificato l’attacco sostenendo che la struttura ospedaliera fosse usata da Hamas come centro militare, ma senza fornire prove, prosegue Cruciati. L’ospedale Al-Ahli è uno dei 36 distrutti o danneggiati su 57 presenti nella Striscia di Gaza dall’inizio dell’offensiva il 7 ottobre 2023. Attualmente, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ne restano solo 21 operativi. L’articolo denuncia un vero e proprio “ospedalicidio” aggravato dal blocco umanitario totale che priva la popolazione di cibo, medicine e rifugi.

La cronista mette in luce anche la reazione dell’Unione Europea, che si limita a definire le azioni israeliane “sproporzionate” attraverso la voce di Kaja Kallas, senza però assumere misure concrete. A fronte di circa 51.000 morti palestinesi e 14.000 dispersi, Cruciati evidenzia come i bombardamenti colpiscano persino le aree designate come “zone umanitarie”, tra cui al-Mawasi, dove convergono sfollati da Rafah e Khan Younis. Queste zone, descritte come “sicure”, si rivelano invece bersagliate e strumenti di una strategia per rendere Gaza invivibile.

L’articolo conclude illustrando il fallimento dei negoziati al Cairo, dove Hamas ha respinto la proposta egiziana di un cessate il fuoco di 45 giorni perché prevedeva anche il disarmo del gruppo. Mentre i negoziati si arenano, Cruciati sottolinea come il premier israeliano Benjamin Netanyahu sembri non voler porre fine al conflitto, anche a costo di sacrificare gli ostaggi israeliani. Crescono però i segnali di dissenso interno in Israele, con lettere di protesta firmate da migliaia di riservisti e accademici che chiedono la fine della guerra per salvare gli ostaggi.

https://ilmanifesto.it/gaza-18-minuti-per-fuggire-dallospedale-poi-i-missili-e-le-macerie

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Quando Mosca bombarda, è una "strage di civili"; quando lo fa Israele, è un semplice "raid". Questo è il doppiopesismo ipocrita dei media occidentali: la gravità dei crimini dipende da chi li commette.
14.04.202523:58
Nell’articolo dal titolo “Gaza, 18 minuti per fuggire dall’ospedale. Poi i missili e le macerie” pubblicato su il manifesto il 15 aprile 2025, la giornalista Chiara Cruciati racconta l’attacco israeliano all’ospedale battista Al-Ahli di Gaza City, avvenuto nella notte tra sabato e domenica, alla vigilia della Domenica delle Palme.

Secondo quanto riportato, l’esercito israeliano ha concesso solo 18 minuti per evacuare la struttura prima di colpirla con missili, distruggendo quello che era l’ultimo ospedale funzionante nella città. Tre pazienti sono morti nel cortile: un bambino a causa del freddo e due adulti per mancanza di ossigeno. Testimonianze come quella di Yousef Abu Shakran, padre di un bimbo ustionato, evidenziano il dramma umano dell’attacco, con il padre che racconta le condizioni disperate in cui ha dovuto portare via suo figlio tra le macerie e senza sapere dove cercare aiuto.

Israele ha giustificato l’attacco sostenendo che la struttura ospedaliera fosse usata da Hamas come centro militare, ma senza fornire prove, prosegue Cruciati. L’ospedale Al-Ahli è uno dei 36 distrutti o danneggiati su 57 presenti nella Striscia di Gaza dall’inizio dell’offensiva il 7 ottobre 2023. Attualmente, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ne restano solo 21 operativi. L’articolo denuncia un vero e proprio “ospedalicidio” aggravato dal blocco umanitario totale che priva la popolazione di cibo, medicine e rifugi.

La cronista mette in luce anche la reazione dell’Unione Europea, che si limita a definire le azioni israeliane “sproporzionate” attraverso la voce di Kaja Kallas, senza però assumere misure concrete. A fronte di circa 51.000 morti palestinesi e 14.000 dispersi, Cruciati evidenzia come i bombardamenti colpiscano persino le aree designate come “zone umanitarie”, tra cui al-Mawasi, dove convergono sfollati da Rafah e Khan Younis. Queste zone, descritte come “sicure”, si rivelano invece bersagliate e strumenti di una strategia per rendere Gaza invivibile.

L’articolo conclude illustrando il fallimento dei negoziati al Cairo, dove Hamas ha respinto la proposta egiziana di un cessate il fuoco di 45 giorni perché prevedeva anche il disarmo del gruppo. Mentre i negoziati si arenano, Cruciati sottolinea come il premier israeliano Benjamin Netanyahu sembri non voler porre fine al conflitto, anche a costo di sacrificare gli ostaggi israeliani. Crescono però i segnali di dissenso interno in Israele, con lettere di protesta firmate da migliaia di riservisti e accademici che chiedono la fine della guerra per salvare gli ostaggi.

https://ilmanifesto.it/gaza-18-minuti-per-fuggire-dallospedale-poi-i-missili-e-le-macerie
15.04.202500:16
🇮🇱 NETANYAHU, "NEMICO INTERNO": EX CAPO DELL’ESERCITO ISRAELIANO CHIEDE LA SUA RIMOZIONE

L’ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Dan Halutz, ha espresso dure critiche contro il primo ministro Benjamin Netanyahu, definendolo “un nemico che rappresenta una minaccia diretta” per la sicurezza di Israele. In un’intervista al canale israeliano Channel 12, Halutz ha affermato che Netanyahu dovrebbe essere “fermato o catturato”, chiarendo di non intendere un’eliminazione fisica, ma la sua rimozione dal potere con mezzi legali.

Il partito Likud, guidato da Netanyahu, ha reagito con forza, accusando Halutz di incitamento alla violenza e minaccia alla democrazia. In un comunicato, il Likud lo ha definito “il capo di stato maggiore più fallimentare della storia dell’IDF”.

Halutz è anche tra i firmatari di una petizione sottoscritta da oltre 1.500 soldati ed ex ufficiali israeliani, tra cui l’ex primo ministro Ehud Barak e altri generali di alto rango. La petizione chiede al governo di dare priorità al rilascio dei prigionieri israeliani detenuti a Gaza, anche se ciò comportasse la sospensione delle operazioni militari. I firmatari provengono da varie unità delle forze armate, incluse truppe corazzate, paracadutisti, fanteria e membri dell’intelligence.

Le critiche a Netanyahu si sono accentuate, con l’accusa di mettere a rischio la vita degli ostaggi israeliani per la sua riluttanza a negoziare un cessate il fuoco con Hamas. Alcune fonti riportano che Netanyahu abbia istituito un team per ostacolare qualsiasi accordo di scambio prigionieri, suscitando indignazione tra le famiglie dei detenuti.

Il tutto si inserisce in un contesto di crescenti pressioni internazionali: la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di arresto contro Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant per presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità a Gaza, tra cui l’uso della fame come arma e attacchi deliberati contro civili.

Le parole di Halutz riflettono quindi un malcontento crescente tra le forze armate e l’opinione pubblica israeliana, che contestano la gestione del conflitto da parte del governo e le sue gravi ripercussioni sia interne che internazionali.

https://qudsnen.co/former-israeli-military-chief-says-netanyahu-should-be-captured/?amp
In Marocco, un gruppo di studenti ha dato inizio a uno sciopero della fame per esprimere la propria opposizione alla politica di avvicinamento del governo verso Israele, vista come un atto contrario al sostegno storico del Paese alla causa palestinese.

Il processo di normalizzazione tra Marocco e Israele sta progredendo, come dimostrato da un importante contratto siglato di recente per la fornitura di tecnologia militare avanzata, tra cui un satellite spia del valore di un miliardo di dollari.
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Giubbe Rosse
03.04.202519:19
🇵🇸🇮🇱 GAZA, ENNESIMO MASSACRO
Israele ha bombardato una scuola, provocando un nuovo massacro.
Gli attacchi aerei israeliani hanno preso di mira la scuola Dar Al-Arqam, piena di sfollati, nel quartiere Al-Tuffah di Gaza City. I primi resoconti parlano di 30 palestinesi uccisi.

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03.04.202513:08
La Striscia, già “sterilizzata” con una buffer zone interna spessa fino a un chilometro tutto intorno il confine con Israele, apparirebbe come una groviera inversa, con zone “svuotate” o “di combattimento attivo”, come le definisce l’Idf nei comunicati, e bolle piene di sfollati più o meno assistiti da iniziative umanitarie.

Meron Rapoport su +972 l’ha definita “campo di concentramento” (vedi intervista accanto): “Israele si sta preparando a trasferire con la forza l’intera popolazione di Gaza, attraverso una combinazione di ordini di evacuazione e intensi bombardamenti. Saranno aree chiuse, forse recintata, e chiunque venisse sorpreso al di fuori sarà ucciso”. Non è chiaro in che modo l’Idf ritiene di poter rendere “stagne” queste bolle rispetto alla guerriglia fluida di Hamas, (che secondo i servizi occidentali conterebbe ancora su 25 mila uomini, anche se con reclute più giovani e inesperte). Ma poco importa, perché l’obiettivo dell’operazione non sarebbe tanto il controllo, quanto spingere i palestinesi ad abbandonare la loro terra. Il nuovo capo dell’Idf, avrebbe per questo pronto un piano di invasione su vasta scala che mobiliterà nuove divisioni e molte unità di riservisti. Netanyahu punta a un “completo cambiamento delle regole del gioco”, con l’appoggio di Trump, scrive l’introdotto Amit Segal su Yedioth Ahronot.

Emigrazoine volontaria. Se l’estrema destra millenarista di Smotrich e Ben-Gvir vagheggia di reinsediare le colonie nella Striscia, la destra concreta attorno a Netanyahu sembra convinta che con Trump esistano le condizioni per provare a dare corpo all’idea di svuotare la Striscia dai palestinesi. Con una “emigrazione volontaria” ottenuta per sfinimento, sotto la pressione militare e a condizioni vitali tragiche. I media internazionali nelle ultime settimane hanno raccontato che Netanyahu avrebbe incaricato il Mossad di negoziare con il Sudan, il Sud Sudan e il Somaliland le condizioni perché accolgano i gazawi, con lo stesso spirito (e probabilmente risultati) con cui dopo il 1967 Tel Aviv guardava al Sud America. Il vero interlocutore, però, sarebbero i Paesi arabi confinanti. L’Egitto, la Giordania, forse il nuovo Libano con Hezbollah ridotto alla minorità e la nuova Siria post-Assad. Paesi che, con tutta la Lega araba, rifiutano da tempo l’idea. E hanno proposto un loro progetto di ricostruzione a Gaza, che aggiunge investimenti internazionali ma lascia Hamas e i palestinesi dove sono. Israele avrebbe anche già chiesto agli Usa di mediare con l’Egitto perché ritiri il suo esercito dal Sinai.

Le “bolle umanitarie”. Accanto ai piani militari, il governo e l’esercito stanno elaborando nuove regole per gestire e controllare i flussi di aiuti alla popolazione di Gaza. Documenti visionati dal Fatto, circolati tra le ong internazionali e lo staff Onu, delineano intenzioni precise (ma piani ancora vaghi) per acquisire il controllo della gestione dei flussi di aiuti, estromettendo gli attori internazionali.

Le bozze circolate parlano della creazione di hub logistici, detti anche “campi chiusi” o “bolle umanitarie”, isolati e protetti da militari o da società di sicurezza private (contractor egiziani e statunitensi sono stati dispiegati nella Striscia dopo il cessate il fuoco per limitare i flussi via terra dei palestinesi), con flussi di aiuti gestiti direttamente da Israele.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2025/04/03/il-piano-per-la-strisci-a-divisa-subito-a-pezzi/7938430/
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Lettera da Mosca
07.04.202506:35
MUNIZIONI UNGHERESI - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in un video da Budapest sullo sfondo di soldati ungheresi, ha detto prima di partire per gli Stati Uniti per incontrare Trump che Israele e l'Ungheria stanno discutendo una produzione congiunta di munizioni per sostenere la spinta di Israele verso la "vittoria totale".
—❗️🇮🇷/🇺🇸 - Secondo quanto riportato dal Tehran Times, centinaia di missili balistici iraniani sono stati posizionati su lanciatori all'interno di basi strategiche sotterranee distribuite in tutto il Paese e sarebbero pronti al lancio in caso di un'eventuale azione aggressiva da parte degli Stati Uniti.

https://x.com/TehranTimes79/status/1906420102603440550?t=HJ_W01NjrGgvUw3NezTj7g&s=19
03.04.202513:13
“Netanyahu vuole affamare i gazawi fino a farli scappare ”

“Cominceranno ammassandoli nelle zone ‘umanitarie’ come campi di concentramento”

Ric. Ant.

“Campo di concentramento”. Nell’ultimo intervento su Local Call e 972, Meron Rapoport definisce così la strategia militare che Israele sta applicando a Gaza, ora che la guerra è ripartita, in cielo e in terra, e sono tornate le cosiddette “zone umanitarie” per i palestinesi. Un progetto che Netnayahu chiama da un po’ “piano Trump”: “Ma Trump non ne parla più, è Bibi che gli sta dando forma”.

Ieri il ministro della Difesa Katz ha annunciato che l’operazione militare sulla Striscia si espanderà e punterà a conquistare stabilmente territorio. È una nuova strategia?

Da settimane il governo Netanyahu parla di annettere parti di Gaza, se Hamas non accetterà le condizioni israeliane per la liberazione degli ostaggi. Non è chiaro cosa intendano, visto che un’annessione vera e propria, cioè sancita legalmente, non l’hanno fatta neanche in Cisgiordania, dopo il 1967. Mi sembra più opportuno parlare di una sorta di piano dei generali per svuotare territorio dalla popolazione palestinese e installare presidi militari fissi. Non è una novità, Israele lo ha sempre fatto senza grossi impedimenti ed era così anche a Jabalia prima dell’ultimo cessate il fuoco. La vera questione invece è capire se davvero stiamo andando verso l’attuazione di quello che Netanyahu chiama ‘piano Trump’.

“Gaza riviera” sembrava poco più di una battuta, è diventata una cosa concreta nella mente del premier?

La novità è questa. Nel governo si ragiona di come espellere 2 milioni di abitanti da Gaza. O meglio, per quanto si capisce, obbligare gli abitanti a concentrarsi (di nuovo) nella zona costiera di Al Mawasi e svuotare tutto il resto. Non ho mai sentito l’ex capo di Stato Maggiore Herzi Halevi parlare di una cosa del genere. Ora sembra affiorare questa logica di costruire zone, forse recintate, in cui concentrare i palestinesi. Katz per allusioni ci ha aggiunto anche la demolizione di tutti gli edifici fuori da quei perimetri. Il senso di questo piano è fare pressione sui palestinesi per spingerli a emigrare. Si ritiene che, trovandosi a vivere in tenda sulla sabbia alle totali dipendenze degli aiuti umanitari che Israele concederà di far entrare, molti palestinesi supplicheranno di andare via. E che gli Stati arabi che finora li hanno rifiutati (Egitto, Giordania, ecc) dovranno piegarsi ad accoglierli. A parte il fatto che si tratta di un piano infernale, cosa accadrà se i gazawi vorranno restare, o se i Paesi arabi continueranno a negargli l’accesso? La vita di 2 milioni di persone sarà a rischio. Per riuscirci, però, bisognerà richiamare i riservisti, e il governo esita perché teme di ricevere troppi rifiuti: sarebbe un colpo tremendo alla coesione sociale di Israele.

Rispetto all’inizio della guerra, c’è un nuovo capo di Stato maggiore e il ministro della Difesa non è più Gallant, ma Katz…

E si vede la differenza. La novità più grande è il piano per l’evacuazione, che ho definito dei ‘campi di concentramento’. Ma non è l’unica. Israele non aveva imposto il blocco totale degli aiuti umanitari neanche dopo il 7 ottobre, se non per pochi giorni. Lo stato d’assedio totale è inedito. Anche i bombardamenti delle ultime due settimane sono diversi: si concentrano esplicitamente su obiettivi civili, i bersagli sono in molti casi funzionari politici di Hamas, non militari, e i danni collaterali sono enormi, basti ricordare gli oltre 400 morti del primo giorno, di cui la metà donne e bambini. Di certo, il governo è stato incoraggiato dal vedere che la comunità internazionale ha lasciato correre sui crimini di guerra e contro l’umanità commessi.

Se è vero che l’intensità della guerra è inversamente proporzionale alla popolarità di Netanyahu, e ora è scoppiato pure il caso Qatargate, è l’inizio della fine per lui?
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Giubbe Rosse
🇺🇸🇮🇱 SALA OVALE. TRUMP SPINGE LA SEDIA PER FAR ACCOMODARE NETANYAHU
Trump afferma che gli Stati Uniti stanno tenendo colloqui diretti con l'Iran e che un "grande incontro" è previsto per sabato.
Dall'Iran fanno sapere, invece, che sono in corso negoziati indiretti e che le richieste di negoziati diretti sono state ignorate.

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Un altro crimine si consuma a Gaza. Un attacco aereo israeliano ha colpito deliberatamente una tenda dove si rifugiavano giornalisti palestinesi, all’esterno dell’ospedale Nasser di Khan Younis, nel sud della Striscia. Il bilancio è devastante: due giornalisti uccisi, altri sei feriti, uno dei quali bruciato vivo davanti alle telecamere. Le immagini, dure e strazianti, mostrano la brutalità di un’aggressione che non risparmia nemmeno chi documenta la verità.
Ancora una volta, Israele prende di mira chi cerca di raccontare l’orrore, chi alza la voce, chi prova a rompere il silenzio su una delle più gravi catastrofi umanitarie dei nostri tempi. Colpire i giornalisti palestinesi è un attacco diretto alla verità, un tentativo vile di spegnere ogni voce libera nella Striscia di Gaza.
Non si tratta di “danni collaterali”, ma di una strategia di terrore sistematica, contro un popolo sotto assedio. Gaza brucia e il mondo continua a voltarsi dall’altra parte, ignorando la sofferenza di milioni di civili palestinesi privati di tutto: casa, diritti, dignità, vita. Questi giornalisti stavano solo facendo il loro dovere, cercando di mostrare al mondo quello che molti si rifiutano di vedere.
Il silenzio è complicità. La solidarietà con il popolo palestinese è oggi più urgente che mai.
#FreePalestine #GazaUnderAttack #StopIsraeliTerrorism #ProtectJournalists #EndTheOccupation #HumanRights #JusticeForPalestine #StandWithGaza #NakbaContinua
03.04.202513:08
Il piano per la strisci a: divisa subito a pezzi

Tel Aviv punta all’emigrazione “volontaria” e fa pressione sull’Egitto (via Usa) a cui chiede il ritiro dei soldati dall’area del Sinai

Riccardo Antoniucci

Il 2025 sarà ancora “un anno di guerra”, ha detto il nuovo capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Eyal Zamir, nel suo primo discorso dopo l’insediamento a inizio marzo. L’ex capo del comando meridionale dell’Idf, già segretario militare di Benjamin Netanyahu, ha sostituito Herzi Halevi che il premier ha volentieri lasciato dimettere per addossargli la colpa delle falle di sicurezza del massacro del 7 ottobre 2023. Due settimane dopo quel discorso, il 18 marzo, Netanyahu ha ordinato a Zamir di riprendere le operazioni militari nella Striscia, buttando la colpa alla malafede di Hamas nei negoziati per il rilascio degli ultimi ostaggi. Da allora, i bombardamenti hanno ucciso oltre 1.000 persone, secondo i dati delle autorità di Gaza (il bilancio delle vittime dall’inizio del conflitto supera ormai 50 mila), sono riprese le operazioni via terra e sui telefoni dei gazawi (sia quelli tornati a Gaza City, Jabalia e Beit Lahia, sia quelli che dal distretto costiero di Al Mawasi avevano preferito andare a piantare le tende sopra le macerie delle loro case di Khan Younis o di Rafah) sono ricomparsi gli ordini di evacuazione.

Il ministro della Difesa di Tel Aviv Israel Katz (che ha sostituito Yoav Gallant), ha annunciato che le operazioni dell’Idf si espanderanno per “conquistare ampie aree che saranno incorporate nelle zone di sicurezza israeliane”. Poco dopo, Netanyahu ha annunciato che l’esercito stava “dividendo la Striscia” un’altra volta, creando un nuovo “corridoio” tra Rafah e Khan Younis, lungo la strada Morag. L’obiettivo dichiarato, “fare pressione su Hamas per il rilascio di tutti gli ostaggi”. Più vasto quello reale: costringere i palestinesi a un nuovo sfollamento verso aree ristrette della Striscia controllate a vista e svuotare tutto il resto dai suoi abitanti, nella prospettiva di spingere quanti più gazawi a emigrare. Con il beneplacito degli Usa di Donald Trump. Alle condizioni umanitarie attuali, con gli aiuti bloccati, gli ospedali ai minimi termini e le ultime panetterie chiuse, l’aggiunta dell’aggettivo “volontaria” a qualificare questa evacuazione appare un orpello.

Nuova strategia. Durante il primo anno di guerra, l’Idf ha proceduto svuotando progressivamente la Striscia lungo l’asse nord-sud, spingendo i civili palestinesi da Gaza city fino a Rafah e circondando le sacche di resistenza di Hamas. Oggi l’operazione militare ha parzialmente cambiato strategia. Discontinuità che Zamir ha l’interesse a cercare per lasciare il suo segno sulla più lunga offensiva nella Striscia mai lanciata (già dieci volte più lunga di Margine protettivo del 2014), ma le cui radici si trovano già “nell’isolamento” di Jabalia nei due mesi prima della tregua di gennaio.

Già a inizio marzo, prima che la tregua precipitasse, al Wall Street Journal erano arrivati piani per una “seconda invasione di Gaza con una potenza militare molto maggiore di quella dispiegata finora” e “l’obiettivo di mantenere il terreno e occupare”. Finora, l’offensiva si è incardinata sulla linea di forza nord-sud, tagliata in perpendicolare dai “corridoi” di Philadelphia (che sterilizza il confine con l’Egitto e chiude il valico) e Netzarim, appena a sud di Gaza City (che l’Idf dopo la tregua ha smobilitato con un “arrivederci presto”). Ora si aggiunge il terzo “taglio” di Morag a metà tra le due, ma soprattutto la strategia diventa ancora più “rizomatica” (già vice del generale Kochavi, anche Zamir è stato alla scuola del warfare new age che ha adattato la filosofia postmoderna deleuziana alle tattiche di counter insurgency, anti-guerriglia). L’idea che filtra, secondo fonti militari citate da diversi media israeliani, è moltiplicare le “aree umanitarie” in cui relegare i civili, come la zona costiera di Al Mawasi.
03.04.202519:23
La giornalista palestinese Haya Murtaja è deceduta dopo un arresto cardiaco provocato dal terrore scatenato dai violenti bombardamenti israeliani, avvenuti in seguito alla rottura del cessate il fuoco da parte dell’esercito israeliano e alla ripresa della sua offensiva su Gaza.

Ricoverata per diversi giorni in terapia intensiva, è stata infine dichiarata morta, suscitando un’ondata di commozione e dolore tra la popolazione palestinese e tra gli attivisti pro-Palestina di tutto il mondo.

La sua tragica scomparsa ha evidenziato in modo straziante la paura paralizzante e il profondo trauma psicologico vissuti quotidianamente dal popolo di Gaza.
— 🇮🇷 Il Generale di Brigata Amirali Hajizadeh, comandante delle Forze Aerospaziali dell’IRGC, ha dichiarato:
«Gli Stati Uniti hanno circa 10 basi militari nella nostra regione, con circa 50.000 soldati. Questo significa che stanno seduti in una casa di vetro — e chi vive in una casa di vetro non dovrebbe lanciare pietre.»

Nel frattempo, il Ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi ha aggiunto:
«Se Trump pensa di poter intimidire l’Iran, si sbaglia. L’Iran non permetterà a nessuno di rivolgersi a noi con il linguaggio della forza — non ci pieghiamo di fronte alle minacce.»
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