16.04.202500:27
Nell’articolo dal titolo “Riservisti in fuga, l’esercito israeliano mai così in crisi”, pubblicato il 16 aprile 2025 sulla rivista israelo-palestinese +972 Magazine, Meron Rapoport analizza la profonda crisi che sta attraversando l’esercito israeliano, legata al drastico calo della partecipazione dei riservisti al servizio militare.
Il fenomeno del rifiuto di prestare servizio, noto anche come “cessazione del volontariato”, si è intensificato notevolmente rispetto al passato, coinvolgendo non solo la sinistra radicale ma anche fasce più ampie della popolazione israeliana. Secondo Rapoport, a partire da marzo 2025, le presenze tra i riservisti sono scese a circa il 60%, se non meno, rispetto al picco del 120% subito dopo l’attacco del 7 ottobre 2023. Questo calo si tradurrebbe in oltre 100.000 riservisti assenti, un numero ritenuto “enorme” e potenzialmente in grado di compromettere la prosecuzione della guerra.
L'autore sottolinea che le motivazioni alla base del rifiuto sono complesse e variegate: sfiducia verso la leadership politica, stanchezza emotiva, perdite economiche significative, ma anche motivazioni etiche. Movimenti come Yesh Gvul e Soldati per gli ostaggi riportano centinaia di casi di obiezione, sebbene le punizioni siano rare: solo un riservista è stato condannato di recente.
Personaggi come Tom Mehager e Yuval Green parlano di un nuovo tipo di “rifiuto grigio-ideologico”, meno legato a ideologie pacifiste e più a un senso di disagio verso gli obiettivi della guerra e l’inerzia del governo nel risolvere la questione degli ostaggi.
L’articolo riporta anche una crescente visibilità mediatica del movimento dei refusenik, con interventi di madri di soldati, ex giudici come Ayala Procaccia, e sociologhe come Yael Berda, che collegano il fenomeno alla perdita di fiducia nello Stato e al rigetto del discorso nazionalista estremo.
In conclusione, Rapoport sostiene che, pur non avendo ancora piegato l’apparato militare, la diserzione dei riservisti sta minando le fondamenta del concetto di “esercito del popolo” su cui Israele ha sempre fatto affidamento, alimentando un clima di sfiducia, disperazione e ricerca di alternative all’interno della società israeliana.
https://ilmanifesto.it/riservisti-in-fuga-lesercito-israeliano-mai-cosi-in-crisi
Il fenomeno del rifiuto di prestare servizio, noto anche come “cessazione del volontariato”, si è intensificato notevolmente rispetto al passato, coinvolgendo non solo la sinistra radicale ma anche fasce più ampie della popolazione israeliana. Secondo Rapoport, a partire da marzo 2025, le presenze tra i riservisti sono scese a circa il 60%, se non meno, rispetto al picco del 120% subito dopo l’attacco del 7 ottobre 2023. Questo calo si tradurrebbe in oltre 100.000 riservisti assenti, un numero ritenuto “enorme” e potenzialmente in grado di compromettere la prosecuzione della guerra.
L'autore sottolinea che le motivazioni alla base del rifiuto sono complesse e variegate: sfiducia verso la leadership politica, stanchezza emotiva, perdite economiche significative, ma anche motivazioni etiche. Movimenti come Yesh Gvul e Soldati per gli ostaggi riportano centinaia di casi di obiezione, sebbene le punizioni siano rare: solo un riservista è stato condannato di recente.
Personaggi come Tom Mehager e Yuval Green parlano di un nuovo tipo di “rifiuto grigio-ideologico”, meno legato a ideologie pacifiste e più a un senso di disagio verso gli obiettivi della guerra e l’inerzia del governo nel risolvere la questione degli ostaggi.
L’articolo riporta anche una crescente visibilità mediatica del movimento dei refusenik, con interventi di madri di soldati, ex giudici come Ayala Procaccia, e sociologhe come Yael Berda, che collegano il fenomeno alla perdita di fiducia nello Stato e al rigetto del discorso nazionalista estremo.
In conclusione, Rapoport sostiene che, pur non avendo ancora piegato l’apparato militare, la diserzione dei riservisti sta minando le fondamenta del concetto di “esercito del popolo” su cui Israele ha sempre fatto affidamento, alimentando un clima di sfiducia, disperazione e ricerca di alternative all’interno della società israeliana.
https://ilmanifesto.it/riservisti-in-fuga-lesercito-israeliano-mai-cosi-in-crisi
15.04.202518:50
Eppure, non mancano quelli che, come Alexandria Ocasio-Cortez o Bernie Sanders, continuano a coltivare l’illusione di poter “cambiare il sistema dall’interno”, riformando un partito – quello democratico – che è organicamente integrato nei meccanismi dell’impero. Questa illusione viene spesso ripresa acriticamente anche in Europa e in Italia, dove settori della sinistra guardano a queste figure come se incarnassero un’alternativa reale, quando in realtà operano entro i limiti rigidissimi di un sistema che non consente dissenso autentico. E come in ogni impero che si rispetti, ciò che non può essere detto, è anche ciò che conta davvero.
Қайта жіберілді:
Notizie dall'Iran islamico e rivoluzionario

15.04.202510:00
Cosa è successo sabato in Oman? Alcuni dettagli sui colloqui indiretti tra Iran e Stati Uniti (prima parte)
L'Iran e gli Stati Uniti si sono incontrati sabato in Oman in modo indiretto, mentre le tensioni tra i due Paesi rimanevano latenti e la parte iraniana si avvicinava ai colloqui con cautela e profonda diffidenza. Il Tehran Times ha ottenuto nuove informazioni su quanto accaduto quel giorno e sulla possibilità di ottenere risultati concreti dal primo importante incontro tra i due Stati dopo diversi mesi.
I colloqui sono iniziati intorno alle 15:00 ora locale presso la residenza del Ministro degli Esteri dell’Oman Badr bin Hamad Albusaidi, che ha svolto il ruolo di intermediario. Da parte iraniana, Seyyed Abbas Araghchi e da parte americana, l'inviato speciale del presidente Steve Witkoff, erano presenti presso l'abitazione del diplomatico. Sono stati scambiati meno di 10 messaggi scritti, con Araghchi che ha consegnato il primo.
I due funzionari che accompagnavano le delegazioni hanno soggiornato nei rispettivi hotel. Witkoff, arrivato in Oman con due persone al seguito, una delle quali un esperto nucleare, ha scambiato i saluti con Araghchi mentre i due lasciavano le loro stanze al termine della sessione.
Ciò che è stato detto
Nei suoi messaggi, Araghchi ha dichiarato che l'Iran non sta partecipando ai colloqui indiretti per mettersi in mostra. L'obiettivo principale di Teheran è valutare la sincerità della parte statunitense e determinare la fattibilità di raggiungere un accordo, ha detto a Witkoff.
Araghchi ha sottolineato che l'Iran desidera un accordo vantaggioso per tutti. Non accetterebbe, in nessuna circostanza, di smantellare il suo programma nucleare. Tuttavia, ha affermato che il Paese sarebbe disposto ad adottare misure per fornire garanzie contro la militarizzazione delle sue attività nucleari. L'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) sarebbe l'unica entità esterna autorizzata ad accedere ai siti nucleari iraniani.
Ciò che Teheran vuole in cambio è la rimozione delle sanzioni su diversi settori. Una volta rimosse, gli Stati Uniti non potranno ripristinarle con altri pretesti.
Araghchi ha inoltre dichiarato che è necessario un quadro generale di accordo per la prosecuzione dei colloqui. Se gli Stati Uniti dovessero opporsi al quadro proposto dall'Iran durante la sessione iniziale, dovrebbero presentare una propria alternativa da sottoporre alla valutazione dell'Iran.
Witkoff, da parte sua, ha riconosciuto la necessità di Washington di fare delle concessioni. Non ha menzionato il potenziale smantellamento del programma nucleare iraniano, né ha fatto riferimento all'accordo originale, il JCPOA, da cui l'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è ritirato nel 2018.
Cosa succede in disparte
Un importante sviluppo rivelato al The Tehran Times suggerisce che gli Stati europei potrebbero tentare di sabotare i colloqui, poiché ritengono di dovervi partecipare.
Germania, Gran Bretagna e Francia sostengono che, essendo le uniche parti in grado o intenzionate ad attivare il meccanismo di snapback (in scadenza a metà ottobre e concepito per ripristinare le sanzioni ONU contro l'Iran pre-JCPOA), non dovrebbero essere tenute all'oscuro. Di conseguenza, stanno cercando di coinvolgere in qualche modo il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu nei negoziati, in modo da poterne influenzare il processo.
L'Iran, tuttavia, ha detto sabato agli Stati Uniti che spetterà a Washington assicurarsi che lo snapback non venga attivato.
🇮🇷 Notizie dall'Iran islamico e rivoluzionario https://t.me/iranislamico
L'Iran e gli Stati Uniti si sono incontrati sabato in Oman in modo indiretto, mentre le tensioni tra i due Paesi rimanevano latenti e la parte iraniana si avvicinava ai colloqui con cautela e profonda diffidenza. Il Tehran Times ha ottenuto nuove informazioni su quanto accaduto quel giorno e sulla possibilità di ottenere risultati concreti dal primo importante incontro tra i due Stati dopo diversi mesi.
I colloqui sono iniziati intorno alle 15:00 ora locale presso la residenza del Ministro degli Esteri dell’Oman Badr bin Hamad Albusaidi, che ha svolto il ruolo di intermediario. Da parte iraniana, Seyyed Abbas Araghchi e da parte americana, l'inviato speciale del presidente Steve Witkoff, erano presenti presso l'abitazione del diplomatico. Sono stati scambiati meno di 10 messaggi scritti, con Araghchi che ha consegnato il primo.
I due funzionari che accompagnavano le delegazioni hanno soggiornato nei rispettivi hotel. Witkoff, arrivato in Oman con due persone al seguito, una delle quali un esperto nucleare, ha scambiato i saluti con Araghchi mentre i due lasciavano le loro stanze al termine della sessione.
Ciò che è stato detto
Nei suoi messaggi, Araghchi ha dichiarato che l'Iran non sta partecipando ai colloqui indiretti per mettersi in mostra. L'obiettivo principale di Teheran è valutare la sincerità della parte statunitense e determinare la fattibilità di raggiungere un accordo, ha detto a Witkoff.
Araghchi ha sottolineato che l'Iran desidera un accordo vantaggioso per tutti. Non accetterebbe, in nessuna circostanza, di smantellare il suo programma nucleare. Tuttavia, ha affermato che il Paese sarebbe disposto ad adottare misure per fornire garanzie contro la militarizzazione delle sue attività nucleari. L'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) sarebbe l'unica entità esterna autorizzata ad accedere ai siti nucleari iraniani.
Ciò che Teheran vuole in cambio è la rimozione delle sanzioni su diversi settori. Una volta rimosse, gli Stati Uniti non potranno ripristinarle con altri pretesti.
Araghchi ha inoltre dichiarato che è necessario un quadro generale di accordo per la prosecuzione dei colloqui. Se gli Stati Uniti dovessero opporsi al quadro proposto dall'Iran durante la sessione iniziale, dovrebbero presentare una propria alternativa da sottoporre alla valutazione dell'Iran.
Witkoff, da parte sua, ha riconosciuto la necessità di Washington di fare delle concessioni. Non ha menzionato il potenziale smantellamento del programma nucleare iraniano, né ha fatto riferimento all'accordo originale, il JCPOA, da cui l'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è ritirato nel 2018.
Cosa succede in disparte
Un importante sviluppo rivelato al The Tehran Times suggerisce che gli Stati europei potrebbero tentare di sabotare i colloqui, poiché ritengono di dovervi partecipare.
Germania, Gran Bretagna e Francia sostengono che, essendo le uniche parti in grado o intenzionate ad attivare il meccanismo di snapback (in scadenza a metà ottobre e concepito per ripristinare le sanzioni ONU contro l'Iran pre-JCPOA), non dovrebbero essere tenute all'oscuro. Di conseguenza, stanno cercando di coinvolgere in qualche modo il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu nei negoziati, in modo da poterne influenzare il processo.
L'Iran, tuttavia, ha detto sabato agli Stati Uniti che spetterà a Washington assicurarsi che lo snapback non venga attivato.
🇮🇷 Notizie dall'Iran islamico e rivoluzionario https://t.me/iranislamico
15.04.202500:16
🇮🇱 NETANYAHU, "NEMICO INTERNO": EX CAPO DELL’ESERCITO ISRAELIANO CHIEDE LA SUA RIMOZIONE
L’ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Dan Halutz, ha espresso dure critiche contro il primo ministro Benjamin Netanyahu, definendolo “un nemico che rappresenta una minaccia diretta” per la sicurezza di Israele. In un’intervista al canale israeliano Channel 12, Halutz ha affermato che Netanyahu dovrebbe essere “fermato o catturato”, chiarendo di non intendere un’eliminazione fisica, ma la sua rimozione dal potere con mezzi legali.
Il partito Likud, guidato da Netanyahu, ha reagito con forza, accusando Halutz di incitamento alla violenza e minaccia alla democrazia. In un comunicato, il Likud lo ha definito “il capo di stato maggiore più fallimentare della storia dell’IDF”.
Halutz è anche tra i firmatari di una petizione sottoscritta da oltre 1.500 soldati ed ex ufficiali israeliani, tra cui l’ex primo ministro Ehud Barak e altri generali di alto rango. La petizione chiede al governo di dare priorità al rilascio dei prigionieri israeliani detenuti a Gaza, anche se ciò comportasse la sospensione delle operazioni militari. I firmatari provengono da varie unità delle forze armate, incluse truppe corazzate, paracadutisti, fanteria e membri dell’intelligence.
Le critiche a Netanyahu si sono accentuate, con l’accusa di mettere a rischio la vita degli ostaggi israeliani per la sua riluttanza a negoziare un cessate il fuoco con Hamas. Alcune fonti riportano che Netanyahu abbia istituito un team per ostacolare qualsiasi accordo di scambio prigionieri, suscitando indignazione tra le famiglie dei detenuti.
Il tutto si inserisce in un contesto di crescenti pressioni internazionali: la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di arresto contro Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant per presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità a Gaza, tra cui l’uso della fame come arma e attacchi deliberati contro civili.
Le parole di Halutz riflettono quindi un malcontento crescente tra le forze armate e l’opinione pubblica israeliana, che contestano la gestione del conflitto da parte del governo e le sue gravi ripercussioni sia interne che internazionali.
https://qudsnen.co/former-israeli-military-chief-says-netanyahu-should-be-captured/?amp
L’ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Dan Halutz, ha espresso dure critiche contro il primo ministro Benjamin Netanyahu, definendolo “un nemico che rappresenta una minaccia diretta” per la sicurezza di Israele. In un’intervista al canale israeliano Channel 12, Halutz ha affermato che Netanyahu dovrebbe essere “fermato o catturato”, chiarendo di non intendere un’eliminazione fisica, ma la sua rimozione dal potere con mezzi legali.
Il partito Likud, guidato da Netanyahu, ha reagito con forza, accusando Halutz di incitamento alla violenza e minaccia alla democrazia. In un comunicato, il Likud lo ha definito “il capo di stato maggiore più fallimentare della storia dell’IDF”.
Halutz è anche tra i firmatari di una petizione sottoscritta da oltre 1.500 soldati ed ex ufficiali israeliani, tra cui l’ex primo ministro Ehud Barak e altri generali di alto rango. La petizione chiede al governo di dare priorità al rilascio dei prigionieri israeliani detenuti a Gaza, anche se ciò comportasse la sospensione delle operazioni militari. I firmatari provengono da varie unità delle forze armate, incluse truppe corazzate, paracadutisti, fanteria e membri dell’intelligence.
Le critiche a Netanyahu si sono accentuate, con l’accusa di mettere a rischio la vita degli ostaggi israeliani per la sua riluttanza a negoziare un cessate il fuoco con Hamas. Alcune fonti riportano che Netanyahu abbia istituito un team per ostacolare qualsiasi accordo di scambio prigionieri, suscitando indignazione tra le famiglie dei detenuti.
Il tutto si inserisce in un contesto di crescenti pressioni internazionali: la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di arresto contro Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant per presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità a Gaza, tra cui l’uso della fame come arma e attacchi deliberati contro civili.
Le parole di Halutz riflettono quindi un malcontento crescente tra le forze armate e l’opinione pubblica israeliana, che contestano la gestione del conflitto da parte del governo e le sue gravi ripercussioni sia interne che internazionali.
https://qudsnen.co/former-israeli-military-chief-says-netanyahu-should-be-captured/?amp
14.04.202516:05
🇮🇱🇵🇸 IDF: CONQUISTARE GAZA È UNA “FANTASIA”
Secondo un articolo di Eliav Breuer pubblicato su The Jerusalem Post il 14 aprile 2025, il Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane, Eyal Zamir, avrebbe affermato durante una riunione del gabinetto di sicurezza che “conquistare Gaza è una fantasia” a causa della carenza di forze militari disponibili.
Il quotidiano israeliano riferisce che l’intera offensiva in corso contro Hamas si sta svolgendo senza un adeguato supporto diplomatico e che le risorse dell’IDF non sarebbero sufficienti per sostenere un’occupazione totale.
Fonti interne al governo hanno smentito e confermato a più voci queste dichiarazioni, segno di una crescente tensione anche all'interno della leadership israeliana. Intanto, in Knesset, si discute la necessità di riformare il sistema di leva obbligatoria, con richieste di includere anche gli ebrei ultraortodossi per colmare la carenza di personale.
La notizia solleva interrogativi sulla sostenibilità militare dell’offensiva e sulla direzione futura della politica israeliana nei confronti di Gaza.
https://m.jpost.com/israel-news/defense-news/article-850080
Secondo un articolo di Eliav Breuer pubblicato su The Jerusalem Post il 14 aprile 2025, il Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane, Eyal Zamir, avrebbe affermato durante una riunione del gabinetto di sicurezza che “conquistare Gaza è una fantasia” a causa della carenza di forze militari disponibili.
Il quotidiano israeliano riferisce che l’intera offensiva in corso contro Hamas si sta svolgendo senza un adeguato supporto diplomatico e che le risorse dell’IDF non sarebbero sufficienti per sostenere un’occupazione totale.
Fonti interne al governo hanno smentito e confermato a più voci queste dichiarazioni, segno di una crescente tensione anche all'interno della leadership israeliana. Intanto, in Knesset, si discute la necessità di riformare il sistema di leva obbligatoria, con richieste di includere anche gli ebrei ultraortodossi per colmare la carenza di personale.
La notizia solleva interrogativi sulla sostenibilità militare dell’offensiva e sulla direzione futura della politica israeliana nei confronti di Gaza.
https://m.jpost.com/israel-news/defense-news/article-850080


10.04.202520:40
In Marocco, un gruppo di studenti ha dato inizio a uno sciopero della fame per esprimere la propria opposizione alla politica di avvicinamento del governo verso Israele, vista come un atto contrario al sostegno storico del Paese alla causa palestinese.
Il processo di normalizzazione tra Marocco e Israele sta progredendo, come dimostrato da un importante contratto siglato di recente per la fornitura di tecnologia militare avanzata, tra cui un satellite spia del valore di un miliardo di dollari.
Il processo di normalizzazione tra Marocco e Israele sta progredendo, come dimostrato da un importante contratto siglato di recente per la fornitura di tecnologia militare avanzata, tra cui un satellite spia del valore di un miliardo di dollari.
16.04.202500:19
In questo articolo dal titolo "Imboscata a Mohsen Mahdawi, studente della Columbia", Marina Catucci racconta l’arresto di Mohsen Mahdawi, studente 34enne della Columbia University e noto attivista pro-palestinese. Mahdawi è stato fermato il 14 aprile 2025 dalle autorità dell’immigrazione statunitense (ICE) mentre si trovava a un colloquio per il processo di naturalizzazione. Nonostante non avesse precedenti penali e fosse titolare di una green card, è stato improvvisamente trattenuto in un centro di detenzione a Colchester, Vermont.
Secondo Luna Droubi, una dei suoi avvocati, si tratta di una strategia ricorrente delle autorità: arrestare attivisti e trasferirli in giurisdizioni più conservative per ostacolare la difesa legale. Infatti, il giudice federale William Sessions ha emesso un’ordinanza restrittiva per impedirne l’espulsione o il trasferimento.
Gli avvocati denunciano che l’arresto sia una rappresaglia politica per le attività di Mahdawi a favore della causa palestinese e un tentativo incostituzionale di zittire le voci critiche sulla guerra a Gaza. L’anno precedente, Mahdawi era stato tra i leader delle proteste filo-palestinesi alla Columbia University, dove aveva co-fondato la Società studentesca palestinese e la coalizione Columbia University Apartheid Divest.
Pur essendo attivista, Mahdawi aveva lasciato le attività organizzative nel marzo 2024, poco prima dell’occupazione della Hamilton Hall, per proteggere la sua posizione di immigrato e per coerenza con il suo credo buddista. In passato aveva anche presieduto la Columbia University Buddhist Association.
Infine, l’articolo si chiude ricordando una testimonianza emotiva rilasciata da Mahdawi nel programma “60 Minutes”, dove parlava della sua infanzia in Cisgiordania e dell’uccisione del suo miglior amico da parte di un soldato israeliano, sottolineando il suo attuale impegno per una pace basata sull’amore e non sull’odio.
https://ilmanifesto.it/imboscata-a-mohsen-mahdawi-studente-della-columbia
Secondo Luna Droubi, una dei suoi avvocati, si tratta di una strategia ricorrente delle autorità: arrestare attivisti e trasferirli in giurisdizioni più conservative per ostacolare la difesa legale. Infatti, il giudice federale William Sessions ha emesso un’ordinanza restrittiva per impedirne l’espulsione o il trasferimento.
Gli avvocati denunciano che l’arresto sia una rappresaglia politica per le attività di Mahdawi a favore della causa palestinese e un tentativo incostituzionale di zittire le voci critiche sulla guerra a Gaza. L’anno precedente, Mahdawi era stato tra i leader delle proteste filo-palestinesi alla Columbia University, dove aveva co-fondato la Società studentesca palestinese e la coalizione Columbia University Apartheid Divest.
Pur essendo attivista, Mahdawi aveva lasciato le attività organizzative nel marzo 2024, poco prima dell’occupazione della Hamilton Hall, per proteggere la sua posizione di immigrato e per coerenza con il suo credo buddista. In passato aveva anche presieduto la Columbia University Buddhist Association.
Infine, l’articolo si chiude ricordando una testimonianza emotiva rilasciata da Mahdawi nel programma “60 Minutes”, dove parlava della sua infanzia in Cisgiordania e dell’uccisione del suo miglior amico da parte di un soldato israeliano, sottolineando il suo attuale impegno per una pace basata sull’amore e non sull’odio.
https://ilmanifesto.it/imboscata-a-mohsen-mahdawi-studente-della-columbia
15.04.202518:50
🇺🇸 L’IMPERIALISMO NON VA ALLE ELEZIONI: LA FALSA ALTERNANZA NEL CUORE DELL’IMPERO
Nel dibattito pubblico occidentale, e in particolare nei media liberal, la politica americana viene rappresentata come una lotta epocale tra due visioni del mondo: da un lato il progressismo democratico, dall’altro il nazionalismo reazionario trumpiano. Ogni elezione viene narrata come un referendum sul futuro della democrazia, della libertà, dell’ordine globale. Ma questa rappresentazione è, in gran parte, una costruzione ideologica funzionale al mantenimento dello status quo.
Il circo elettorale serve a mascherare ciò che non cambia mai: la struttura imperiale del potere americano. Cambiano i presidenti, cambiano i toni, ma restano intatti i pilastri fondamentali: il primato del complesso militare-industriale, il dominio della finanza globale, l’assoggettamento dei paesi non allineati. L’Impero non cambia volto, cambia soltanto voce.
Non serve negare che vi siano differenze tra Trump e Biden, o tra Repubblicani e Democratici. Ma si tratta perlopiù di distinzioni marginali: nei toni, nelle retoriche, nelle scelte tattiche. Su ciò che davvero conta – la continuità dell’egemonia americana, il sostegno all’apparato militare, la difesa degli interessi delle élite economiche – la convergenza è totale, trasversale, strutturale.
Trump non è un isolazionista, come spesso viene descritto. La sua visione è brutalmente transazionale: l’Europa non è un alleato, ma un cliente che deve pagare il prezzo della “protezione” americana. La NATO non è mai stata una vera alleanza tra pari, ma uno strumento attraverso cui Washington ha esercitato il proprio dominio sull’Europa. Trump non mette in discussione questa architettura: si limita a renderla più trasparente e brutale. Dove prima c’erano parole come “valori condivisi” e “difesa collettiva”, ora ci sono richieste di pagamento, minacce e logica aziendale. Non meno egemonia, ma più spudorata. La sua apparente apertura verso la Russia non nasce da debolezza o ignoranza, ma da una valutazione strategica: un’alleanza tra Mosca e Pechino rappresenta una minaccia esistenziale per la supremazia globale degli Stati Uniti. Meglio allora cercare un equilibrio con il Cremlino per poter concentrare le risorse contro la Cina e contenere l’Iran.
Dall’altro lato, i Democratici – con l’apparato clintoniano e obamiano in prima linea – perseguono un’imperialismo “liberal”, a volto umano, condito da diritti umani e campagne per la democrazia. Ma il risultato è lo stesso: bombe “progressiste”, sanzioni “etiche”, guerre per procura mascherate da doveri morali.
La complicità con l’apartheid israeliano è uno dei punti in cui l’ipocrisia bipartisan americana raggiunge il suo apice. L’amministrazione Biden ha cercato di salvare le apparenze, fingendo di prendere le distanze dalla politica apertamente genocida del governo Netanyahu, ma senza mai mettere in discussione l’alleanza strategica con Tel Aviv. Le dichiarazioni di “preoccupazione” hanno accompagnato, senza mai ostacolare, il continuo massacro del popolo palestinese: bombardamenti su Gaza, assedi, esecuzioni extragiudiziali, demolizioni di case, espulsioni. Trump, già nella sua prima amministrazione, aveva abbandonato ogni finzione: riconobbe Gerusalemme come capitale, spostò l’ambasciata, legittimò gli insediamenti illegali e promosse apertamente l’apartheid israeliano sotto la retorica dell’“accordo del secolo”. Entrambi, con modalità diverse, hanno garantito a Israele piena impunità: l’unico vero consenso bipartisan negli Stati Uniti è quello che si esercita sulla pelle dei palestinesi.
Chi continua a illudersi che le elezioni americane siano un reale bivio ideologico non fa che confermare quanto sia efficace la macchina di propaganda interna. Il vero dissenso, negli Stati Uniti, non si misura tra i due poli del potere: è ciò che viene sistematicamente marginalizzato, ridicolizzato, silenziato.
Nel dibattito pubblico occidentale, e in particolare nei media liberal, la politica americana viene rappresentata come una lotta epocale tra due visioni del mondo: da un lato il progressismo democratico, dall’altro il nazionalismo reazionario trumpiano. Ogni elezione viene narrata come un referendum sul futuro della democrazia, della libertà, dell’ordine globale. Ma questa rappresentazione è, in gran parte, una costruzione ideologica funzionale al mantenimento dello status quo.
Il circo elettorale serve a mascherare ciò che non cambia mai: la struttura imperiale del potere americano. Cambiano i presidenti, cambiano i toni, ma restano intatti i pilastri fondamentali: il primato del complesso militare-industriale, il dominio della finanza globale, l’assoggettamento dei paesi non allineati. L’Impero non cambia volto, cambia soltanto voce.
Non serve negare che vi siano differenze tra Trump e Biden, o tra Repubblicani e Democratici. Ma si tratta perlopiù di distinzioni marginali: nei toni, nelle retoriche, nelle scelte tattiche. Su ciò che davvero conta – la continuità dell’egemonia americana, il sostegno all’apparato militare, la difesa degli interessi delle élite economiche – la convergenza è totale, trasversale, strutturale.
Trump non è un isolazionista, come spesso viene descritto. La sua visione è brutalmente transazionale: l’Europa non è un alleato, ma un cliente che deve pagare il prezzo della “protezione” americana. La NATO non è mai stata una vera alleanza tra pari, ma uno strumento attraverso cui Washington ha esercitato il proprio dominio sull’Europa. Trump non mette in discussione questa architettura: si limita a renderla più trasparente e brutale. Dove prima c’erano parole come “valori condivisi” e “difesa collettiva”, ora ci sono richieste di pagamento, minacce e logica aziendale. Non meno egemonia, ma più spudorata. La sua apparente apertura verso la Russia non nasce da debolezza o ignoranza, ma da una valutazione strategica: un’alleanza tra Mosca e Pechino rappresenta una minaccia esistenziale per la supremazia globale degli Stati Uniti. Meglio allora cercare un equilibrio con il Cremlino per poter concentrare le risorse contro la Cina e contenere l’Iran.
Dall’altro lato, i Democratici – con l’apparato clintoniano e obamiano in prima linea – perseguono un’imperialismo “liberal”, a volto umano, condito da diritti umani e campagne per la democrazia. Ma il risultato è lo stesso: bombe “progressiste”, sanzioni “etiche”, guerre per procura mascherate da doveri morali.
La complicità con l’apartheid israeliano è uno dei punti in cui l’ipocrisia bipartisan americana raggiunge il suo apice. L’amministrazione Biden ha cercato di salvare le apparenze, fingendo di prendere le distanze dalla politica apertamente genocida del governo Netanyahu, ma senza mai mettere in discussione l’alleanza strategica con Tel Aviv. Le dichiarazioni di “preoccupazione” hanno accompagnato, senza mai ostacolare, il continuo massacro del popolo palestinese: bombardamenti su Gaza, assedi, esecuzioni extragiudiziali, demolizioni di case, espulsioni. Trump, già nella sua prima amministrazione, aveva abbandonato ogni finzione: riconobbe Gerusalemme come capitale, spostò l’ambasciata, legittimò gli insediamenti illegali e promosse apertamente l’apartheid israeliano sotto la retorica dell’“accordo del secolo”. Entrambi, con modalità diverse, hanno garantito a Israele piena impunità: l’unico vero consenso bipartisan negli Stati Uniti è quello che si esercita sulla pelle dei palestinesi.
Chi continua a illudersi che le elezioni americane siano un reale bivio ideologico non fa che confermare quanto sia efficace la macchina di propaganda interna. Il vero dissenso, negli Stati Uniti, non si misura tra i due poli del potere: è ciò che viene sistematicamente marginalizzato, ridicolizzato, silenziato.
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15.04.202510:00
Un dirigente di Hamas ha dichiarato all’emittente "al-Jazeera":
• La nostra delegazione negoziale è rimasta sorpresa dal fatto che la proposta presentata dall'Egitto includesse un testo esplicito riguardante il disarmo della Resistenza.
• L'Egitto ci ha informato che non ci sarà alcun accordo per cessare la guerra senza negoziare il disarmo della Resistenza.
• Hamas ha informato l'Egitto che discutere la questione delle armi della Resistenza è del tutto inaccettabile.
(Nella foto, l’unico momento in cui Hamas depone le armi)
🇮🇷 Notizie dall'Iran islamico e rivoluzionario https://t.me/iranislamico
• La nostra delegazione negoziale è rimasta sorpresa dal fatto che la proposta presentata dall'Egitto includesse un testo esplicito riguardante il disarmo della Resistenza.
• L'Egitto ci ha informato che non ci sarà alcun accordo per cessare la guerra senza negoziare il disarmo della Resistenza.
• Hamas ha informato l'Egitto che discutere la questione delle armi della Resistenza è del tutto inaccettabile.
(Nella foto, l’unico momento in cui Hamas depone le armi)
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15.04.202500:05
—❗️🇮🇱/ 🇸🇾 /🇦🇪 ULTIMA ORA: Il nuovo presidente siriano, Ahmad Al-Sharaa (Al-Jolani), ha incontrato ieri una delegazione israeliana ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti.
Secondo quanto riferito, le due parti hanno discusso la possibilità di una normalizzazione dei rapporti tra Siria e Israele, nonché degli investimenti degli Emirati nelle infrastrutture siriane.
@Middle_East_Spectator
Secondo quanto riferito, le due parti hanno discusso la possibilità di una normalizzazione dei rapporti tra Siria e Israele, nonché degli investimenti degli Emirati nelle infrastrutture siriane.
@Middle_East_Spectator
13.04.202521:52
34 civili uccisi a Sumy, in Ucraina. Tra loro, bambini. L’Occidente insorge all’unisono: “Crimine di guerra”, “atrocità”, “atto inaccettabile”. Giusto. Ogni vita innocente spezzata è una tragedia che va condannata. Ma allora dov’è la stessa indignazione quando, a Gaza, i morti sono oltre 50.000?
Quando è Israele a bombardare ospedali, scuole, campi profughi. Quando interi quartieri vengono cancellati e la fame è usata come arma di guerra. Quando i bambini muoiono sotto le macerie e l’unica reazione di Washington o Bruxelles è un vago “invito alla moderazione”.
Perché due pesi e due misure? Perché se a colpire è la Russia, parliamo subito di terrorismo, tribunali internazionali, giustizia universale. Ma se a colpire è Israele, si parla di “diritto a difendersi”?
Un bambino ucciso da un missile è sempre un crimine. Ma sembra che, per certe potenze, il valore di una vita cambi a seconda del passaporto, della religione, del nemico di turno.
Questa non è difesa dei diritti umani. È ipocrisia travestita da moralismo.
È colonialismo 2.0, dove l’umanità si misura in base all’utilità geopolitica.
Chi oggi grida contro Mosca ma resta in silenzio davanti a Gaza non è neutrale, né coerente. È complice.
Gaza non è un’eccezione tragica. È lo specchio della doppia morale occidentale.
E ogni giorno che passa, sempre più persone se ne accorgono.
Quando è Israele a bombardare ospedali, scuole, campi profughi. Quando interi quartieri vengono cancellati e la fame è usata come arma di guerra. Quando i bambini muoiono sotto le macerie e l’unica reazione di Washington o Bruxelles è un vago “invito alla moderazione”.
Perché due pesi e due misure? Perché se a colpire è la Russia, parliamo subito di terrorismo, tribunali internazionali, giustizia universale. Ma se a colpire è Israele, si parla di “diritto a difendersi”?
Un bambino ucciso da un missile è sempre un crimine. Ma sembra che, per certe potenze, il valore di una vita cambi a seconda del passaporto, della religione, del nemico di turno.
Questa non è difesa dei diritti umani. È ipocrisia travestita da moralismo.
È colonialismo 2.0, dove l’umanità si misura in base all’utilità geopolitica.
Chi oggi grida contro Mosca ma resta in silenzio davanti a Gaza non è neutrale, né coerente. È complice.
Gaza non è un’eccezione tragica. È lo specchio della doppia morale occidentale.
E ogni giorno che passa, sempre più persone se ne accorgono.
09.04.202516:53
Nell’articolo intitolato "CISGIORDANIA. Israele invade Balata. A Dheisheh e Jinba coloni e soldati uniti nelle devastazioni", pubblicato su Pagine Esteri il 9 aprile 2025, l’autore Michele Giorgio descrive l’intensificarsi dell’offensiva militare israeliana "Muro di Ferro", che ha raggiunto il campo profughi palestinese di Balata, a Nablus. All’alba, l’esercito israeliano ha dispiegato tre battaglioni, due unità speciali, due battaglioni della riserva e reparti della Guardia di frontiera, dando il via a vaste perquisizioni e occupazioni di case, causando lo sfollamento di decine di famiglie.
Nel frattempo, mentre il premier israeliano Benyamin Netanyahu rientrava dagli Stati Uniti, in Cisgiordania si moltiplicavano gli attacchi di coloni israeliani, come l’incendio della sala per matrimoni "Flora" a Bidya, con la scritta "Morte agli arabi" sui muri. Giorgio sottolinea che a compiere devastazioni non sono solo i coloni: a Dheisheh (Betlemme), i soldati israeliani hanno fatto irruzione in numerose abitazioni lasciando scritte minacciose e annunciando che il campo potrebbe fare la fine di Jenin e Tulkarem. Simili atti di distruzione sono stati compiuti anche a Jinba, nella zona di Masafer Yatta, dove i militari hanno devastato una scuola e un poliambulatorio, distruggendo anche i pannelli solari e le telecamere di sorveglianza.
L’attivista palestinese Basel Adra, uno dei registi del documentario "No Other Land", ha testimoniato la distruzione totale delle strutture scolastiche. Sebbene alcuni media israeliani abbiano parlato di possibili sanzioni contro i soldati responsabili, Giorgio evidenzia come nella realtà non ci siano cambiamenti concreti.
L’articolo si sofferma poi sulle condizioni dei campi di Jenin, Nur Shams e Tulkarem, epicentri dell’operazione "Muro di ferro", dove le immagini satellitari mostrano la distruzione di centinaia di abitazioni. A Jenin, un terzo del campo è stato raso al suolo. Le strade aperte dai bulldozer servono ora al passaggio dei mezzi blindati. I danni stimati dal comune di Jenin ammontano a circa 300 milioni di dollari, con interi quartieri distrutti, infrastrutture inutilizzabili e un sistema scolastico fortemente compromesso: si stima una perdita del 30% dei giorni di scuola nell’anno scolastico 2023-2024.
Infine, l’articolo riferisce di nuove demolizioni a Salfit, Wadi Fukin, Beit Liqya e Samua, e di numerosi ordini di abbattimento consegnati a famiglie palestinesi, segno della prosecuzione della politica di espulsione e demolizione.
https://pagineesteri.it/2025/04/09/medioriente/cisgiordania-israele-invade-balata-a-dheisheh-e-jinba-coloni-e-soldati-uniti-nelle-devastazioni/
Nel frattempo, mentre il premier israeliano Benyamin Netanyahu rientrava dagli Stati Uniti, in Cisgiordania si moltiplicavano gli attacchi di coloni israeliani, come l’incendio della sala per matrimoni "Flora" a Bidya, con la scritta "Morte agli arabi" sui muri. Giorgio sottolinea che a compiere devastazioni non sono solo i coloni: a Dheisheh (Betlemme), i soldati israeliani hanno fatto irruzione in numerose abitazioni lasciando scritte minacciose e annunciando che il campo potrebbe fare la fine di Jenin e Tulkarem. Simili atti di distruzione sono stati compiuti anche a Jinba, nella zona di Masafer Yatta, dove i militari hanno devastato una scuola e un poliambulatorio, distruggendo anche i pannelli solari e le telecamere di sorveglianza.
L’attivista palestinese Basel Adra, uno dei registi del documentario "No Other Land", ha testimoniato la distruzione totale delle strutture scolastiche. Sebbene alcuni media israeliani abbiano parlato di possibili sanzioni contro i soldati responsabili, Giorgio evidenzia come nella realtà non ci siano cambiamenti concreti.
L’articolo si sofferma poi sulle condizioni dei campi di Jenin, Nur Shams e Tulkarem, epicentri dell’operazione "Muro di ferro", dove le immagini satellitari mostrano la distruzione di centinaia di abitazioni. A Jenin, un terzo del campo è stato raso al suolo. Le strade aperte dai bulldozer servono ora al passaggio dei mezzi blindati. I danni stimati dal comune di Jenin ammontano a circa 300 milioni di dollari, con interi quartieri distrutti, infrastrutture inutilizzabili e un sistema scolastico fortemente compromesso: si stima una perdita del 30% dei giorni di scuola nell’anno scolastico 2023-2024.
Infine, l’articolo riferisce di nuove demolizioni a Salfit, Wadi Fukin, Beit Liqya e Samua, e di numerosi ordini di abbattimento consegnati a famiglie palestinesi, segno della prosecuzione della politica di espulsione e demolizione.
https://pagineesteri.it/2025/04/09/medioriente/cisgiordania-israele-invade-balata-a-dheisheh-e-jinba-coloni-e-soldati-uniti-nelle-devastazioni/
16.04.202500:12
Nell’articolo dal titolo "La guerra di Israele all’acqua: Gaza ha sete e muore lentamente", pubblicato su il manifesto il 16 aprile 2025 e firmato da Michele Giorgio, si denuncia la gravissima crisi idrica che sta colpendo la Striscia di Gaza, descritta come una vera e propria emergenza umanitaria, se non addirittura un crimine di guerra.
L’autore evidenzia come i continui bombardamenti israeliani abbiano distrutto o danneggiato oltre 1.700 chilometri di condutture, rendendo inutilizzabile l’85% della rete idrica. La situazione è particolarmente drammatica nel nord della Striscia, a Gaza City e nei suoi sobborghi come Shajaiya, dove l’accesso all’acqua potabile è praticamente azzerato. Gli abitanti sono costretti ad affrontare file estenuanti ai punti di distribuzione e molti ricorrono a fonti contaminate o alla raccolta della pioggia per sopravvivere.
Giorgio descrive testimonianze di civili che camminano chilometri per ottenere pochi litri d’acqua, mentre i valichi restano chiusi e gli aiuti umanitari non riescono a entrare. Secondo il Comune di Gaza, si è ormai superata la soglia dell’emergenza: si rischia una catastrofe.
La situazione è aggravata dal taglio dell’elettricità da parte di Israele, che impedisce il funzionamento degli impianti di desalinizzazione. L’unico impianto attivo nel nord è stato colpito da un raid aereo a gennaio, e quello nel sud è stato spento a marzo per mancanza di energia. Come spiega Juliette Touma dell’UNRWA, senza energia non è possibile desalinizzare, e quindi si è costretti a bere acqua contaminata. Rosalia Bollen dell’UNICEF segnala che circa 600.000 persone hanno perso l’accesso all’acqua potabile e che 1,8 milioni di abitanti (la metà bambini) hanno urgente bisogno di assistenza igienico-sanitaria.
I dati riportati nell’articolo indicano che oggi a Gaza si hanno a disposizione solo 3-5 litri d’acqua al giorno pro capite, ben al di sotto dei 15 litri minimi raccomandati dall’OMS. Prima del 7 ottobre 2023, la media era di 82,7 litri. A Rafah e nel nord della Striscia si è scesi rispettivamente sotto il 5% e il 7% di tale quantità.
Infine, Michele Giorgio riporta la denuncia della Relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese, che parla apertamente di crimine di guerra, accusando Israele di aver usato la sete come arma. Anche Michael Lynk, ex relatore ONU, afferma che impedire l’accesso all’acqua a una popolazione sotto assedio è una gravissima violazione del diritto internazionale.
https://ilmanifesto.it/la-guerra-di-israele-allacqua-gaza-ha-sete-e-muore-lentamente
L’autore evidenzia come i continui bombardamenti israeliani abbiano distrutto o danneggiato oltre 1.700 chilometri di condutture, rendendo inutilizzabile l’85% della rete idrica. La situazione è particolarmente drammatica nel nord della Striscia, a Gaza City e nei suoi sobborghi come Shajaiya, dove l’accesso all’acqua potabile è praticamente azzerato. Gli abitanti sono costretti ad affrontare file estenuanti ai punti di distribuzione e molti ricorrono a fonti contaminate o alla raccolta della pioggia per sopravvivere.
Giorgio descrive testimonianze di civili che camminano chilometri per ottenere pochi litri d’acqua, mentre i valichi restano chiusi e gli aiuti umanitari non riescono a entrare. Secondo il Comune di Gaza, si è ormai superata la soglia dell’emergenza: si rischia una catastrofe.
La situazione è aggravata dal taglio dell’elettricità da parte di Israele, che impedisce il funzionamento degli impianti di desalinizzazione. L’unico impianto attivo nel nord è stato colpito da un raid aereo a gennaio, e quello nel sud è stato spento a marzo per mancanza di energia. Come spiega Juliette Touma dell’UNRWA, senza energia non è possibile desalinizzare, e quindi si è costretti a bere acqua contaminata. Rosalia Bollen dell’UNICEF segnala che circa 600.000 persone hanno perso l’accesso all’acqua potabile e che 1,8 milioni di abitanti (la metà bambini) hanno urgente bisogno di assistenza igienico-sanitaria.
I dati riportati nell’articolo indicano che oggi a Gaza si hanno a disposizione solo 3-5 litri d’acqua al giorno pro capite, ben al di sotto dei 15 litri minimi raccomandati dall’OMS. Prima del 7 ottobre 2023, la media era di 82,7 litri. A Rafah e nel nord della Striscia si è scesi rispettivamente sotto il 5% e il 7% di tale quantità.
Infine, Michele Giorgio riporta la denuncia della Relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese, che parla apertamente di crimine di guerra, accusando Israele di aver usato la sete come arma. Anche Michael Lynk, ex relatore ONU, afferma che impedire l’accesso all’acqua a una popolazione sotto assedio è una gravissima violazione del diritto internazionale.
https://ilmanifesto.it/la-guerra-di-israele-allacqua-gaza-ha-sete-e-muore-lentamente
15.04.202510:10
Hamas respinge la proposta di tregua che invita i gruppi palestinesi ad arrendersi
https://www.middleeasteye.net/news/hamas-rejects-israel-truce-proposal-palestinian-groups-disarm
https://www.middleeasteye.net/news/hamas-rejects-israel-truce-proposal-palestinian-groups-disarm


15.04.202509:39
Quando Mosca bombarda, è una "strage di civili"; quando lo fa Israele, è un semplice "raid". Questo è il doppiopesismo ipocrita dei media occidentali: la gravità dei crimini dipende da chi li commette.
14.04.202523:58
Nell’articolo dal titolo “Gaza, 18 minuti per fuggire dall’ospedale. Poi i missili e le macerie” pubblicato su il manifesto il 15 aprile 2025, la giornalista Chiara Cruciati racconta l’attacco israeliano all’ospedale battista Al-Ahli di Gaza City, avvenuto nella notte tra sabato e domenica, alla vigilia della Domenica delle Palme.
Secondo quanto riportato, l’esercito israeliano ha concesso solo 18 minuti per evacuare la struttura prima di colpirla con missili, distruggendo quello che era l’ultimo ospedale funzionante nella città. Tre pazienti sono morti nel cortile: un bambino a causa del freddo e due adulti per mancanza di ossigeno. Testimonianze come quella di Yousef Abu Shakran, padre di un bimbo ustionato, evidenziano il dramma umano dell’attacco, con il padre che racconta le condizioni disperate in cui ha dovuto portare via suo figlio tra le macerie e senza sapere dove cercare aiuto.
Israele ha giustificato l’attacco sostenendo che la struttura ospedaliera fosse usata da Hamas come centro militare, ma senza fornire prove, prosegue Cruciati. L’ospedale Al-Ahli è uno dei 36 distrutti o danneggiati su 57 presenti nella Striscia di Gaza dall’inizio dell’offensiva il 7 ottobre 2023. Attualmente, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ne restano solo 21 operativi. L’articolo denuncia un vero e proprio “ospedalicidio” aggravato dal blocco umanitario totale che priva la popolazione di cibo, medicine e rifugi.
La cronista mette in luce anche la reazione dell’Unione Europea, che si limita a definire le azioni israeliane “sproporzionate” attraverso la voce di Kaja Kallas, senza però assumere misure concrete. A fronte di circa 51.000 morti palestinesi e 14.000 dispersi, Cruciati evidenzia come i bombardamenti colpiscano persino le aree designate come “zone umanitarie”, tra cui al-Mawasi, dove convergono sfollati da Rafah e Khan Younis. Queste zone, descritte come “sicure”, si rivelano invece bersagliate e strumenti di una strategia per rendere Gaza invivibile.
L’articolo conclude illustrando il fallimento dei negoziati al Cairo, dove Hamas ha respinto la proposta egiziana di un cessate il fuoco di 45 giorni perché prevedeva anche il disarmo del gruppo. Mentre i negoziati si arenano, Cruciati sottolinea come il premier israeliano Benjamin Netanyahu sembri non voler porre fine al conflitto, anche a costo di sacrificare gli ostaggi israeliani. Crescono però i segnali di dissenso interno in Israele, con lettere di protesta firmate da migliaia di riservisti e accademici che chiedono la fine della guerra per salvare gli ostaggi.
https://ilmanifesto.it/gaza-18-minuti-per-fuggire-dallospedale-poi-i-missili-e-le-macerie
Secondo quanto riportato, l’esercito israeliano ha concesso solo 18 minuti per evacuare la struttura prima di colpirla con missili, distruggendo quello che era l’ultimo ospedale funzionante nella città. Tre pazienti sono morti nel cortile: un bambino a causa del freddo e due adulti per mancanza di ossigeno. Testimonianze come quella di Yousef Abu Shakran, padre di un bimbo ustionato, evidenziano il dramma umano dell’attacco, con il padre che racconta le condizioni disperate in cui ha dovuto portare via suo figlio tra le macerie e senza sapere dove cercare aiuto.
Israele ha giustificato l’attacco sostenendo che la struttura ospedaliera fosse usata da Hamas come centro militare, ma senza fornire prove, prosegue Cruciati. L’ospedale Al-Ahli è uno dei 36 distrutti o danneggiati su 57 presenti nella Striscia di Gaza dall’inizio dell’offensiva il 7 ottobre 2023. Attualmente, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ne restano solo 21 operativi. L’articolo denuncia un vero e proprio “ospedalicidio” aggravato dal blocco umanitario totale che priva la popolazione di cibo, medicine e rifugi.
La cronista mette in luce anche la reazione dell’Unione Europea, che si limita a definire le azioni israeliane “sproporzionate” attraverso la voce di Kaja Kallas, senza però assumere misure concrete. A fronte di circa 51.000 morti palestinesi e 14.000 dispersi, Cruciati evidenzia come i bombardamenti colpiscano persino le aree designate come “zone umanitarie”, tra cui al-Mawasi, dove convergono sfollati da Rafah e Khan Younis. Queste zone, descritte come “sicure”, si rivelano invece bersagliate e strumenti di una strategia per rendere Gaza invivibile.
L’articolo conclude illustrando il fallimento dei negoziati al Cairo, dove Hamas ha respinto la proposta egiziana di un cessate il fuoco di 45 giorni perché prevedeva anche il disarmo del gruppo. Mentre i negoziati si arenano, Cruciati sottolinea come il premier israeliano Benjamin Netanyahu sembri non voler porre fine al conflitto, anche a costo di sacrificare gli ostaggi israeliani. Crescono però i segnali di dissenso interno in Israele, con lettere di protesta firmate da migliaia di riservisti e accademici che chiedono la fine della guerra per salvare gli ostaggi.
https://ilmanifesto.it/gaza-18-minuti-per-fuggire-dallospedale-poi-i-missili-e-le-macerie
12.04.202518:56
Dopo aver ripulito etnicamente l'intera popolazione di Rafah, l'esercito di occupazione israeliano ha annunciato che da oggi il Corridoio Morag, nella Striscia di Gaza meridionale, è completamente sotto il suo controllo e che ha di fatto isolato la città di Rafah dal resto del territorio.
Қайта жіберілді:
Notizie dall'Iran islamico e rivoluzionario

15.04.202510:01
Cosa è successo sabato in Oman? Alcuni dettagli sui colloqui indiretti tra Iran e Stati Uniti (seconda parte)
Gli europei stanno anche valutando ulteriori misure per esercitare pressione sull'Iran, tra cui la designazione del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica come entità terroristica. Secondo quanto appreso dal Tehran Times, stanno attualmente cercando il sostegno dei singoli Stati membri prima di sottoporre la proposta al Parlamento europeo.
Inoltre, l'E3 sta pianificando di lanciare campagne di propaganda per creare una frattura tra Iran, Russia e Cina, nella convinzione che, con il potenziale risentimento dei due maggiori alleati dell'Iran, il Paese avrebbe maggiori ostacoli nel raggiungere un accordo con gli Stati Uniti.
Cosa aspettarsi
Sebbene i colloqui indiretti con l'Oman abbiano dato nuova linfa alla diplomazia, il futuro rimane ancora incerto. L'Iran, in particolare, fa fatica a fidarsi nuovamente degli Stati Uniti dopo l'abbandono del JCPOA da parte di Washington.
🇮🇷 Notizie dall'Iran islamico e rivoluzionario https://t.me/iranislamico
Gli europei stanno anche valutando ulteriori misure per esercitare pressione sull'Iran, tra cui la designazione del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica come entità terroristica. Secondo quanto appreso dal Tehran Times, stanno attualmente cercando il sostegno dei singoli Stati membri prima di sottoporre la proposta al Parlamento europeo.
Inoltre, l'E3 sta pianificando di lanciare campagne di propaganda per creare una frattura tra Iran, Russia e Cina, nella convinzione che, con il potenziale risentimento dei due maggiori alleati dell'Iran, il Paese avrebbe maggiori ostacoli nel raggiungere un accordo con gli Stati Uniti.
Cosa aspettarsi
Sebbene i colloqui indiretti con l'Oman abbiano dato nuova linfa alla diplomazia, il futuro rimane ancora incerto. L'Iran, in particolare, fa fatica a fidarsi nuovamente degli Stati Uniti dopo l'abbandono del JCPOA da parte di Washington.
🇮🇷 Notizie dall'Iran islamico e rivoluzionario https://t.me/iranislamico
15.04.202509:05
🇮🇱🇵🇸 ISRAELE OCCUPA CIRCA UN TERZO DELLA STRISCIA DI GAZA: AUMENTANO LE TENSIONI E LA CRISI UMANITARIA
Nell’articolo "Israel Has Taken Over About a Third of the Gaza Strip", firmato da Dov Lieber, Summer Said e Abeer Ayyoub e pubblicato sul Wall Street Journal il 15 aprile 2025, viene analizzata la crescente espansione dell’esercito israeliano all’interno della Striscia di Gaza, dove le forze di Tel Aviv hanno ormai assunto il controllo diretto di circa un terzo del territorio. Questo nuovo sviluppo segna un cambiamento significativo nella condotta del conflitto: da operazioni rapide e mirate si è passati a una strategia di occupazione territoriale prolungata, che sta generando profonde ripercussioni politiche, sociali e umanitarie.
Secondo quanto riportato, l’obiettivo dichiarato da Israele è quello di esercitare ulteriore pressione su Hamas per ottenere la liberazione degli ostaggi israeliani catturati durante l’attacco del 7 ottobre 2023. Ma dietro la retorica della sicurezza, molti analisti leggono una volontà esplicita di ridisegnare la geografia politica della Striscia, spezzandone l’unità e frammentandone il tessuto sociale. Ne sono esempio i corridoi militari – come il “Morag Corridor” nel sud e il “Netzarim Corridor” nel nord – che dividono Gaza in più zone scollegate, impedendo il movimento interno e ostacolando ogni forma di vita civile. Le forze israeliane presidiano queste aree stabilmente, trasformandole di fatto in territori occupati sotto sorveglianza permanente.
Nel frattempo, la popolazione palestinese continua a pagare un prezzo altissimo. Gli sfollati si contano a centinaia di migliaia, costretti a lasciare ripetutamente le proprie abitazioni in cerca di sicurezza che spesso non esiste. Le Nazioni Unite stimano che circa due terzi del territorio di Gaza siano oggi soggetti a ordini di evacuazione o considerati inaccessibili. La situazione umanitaria è al collasso: mancano cibo, acqua potabile, cure mediche, elettricità. E mentre si parla di una possibile tregua mediata dall’Egitto – che includerebbe 70 giorni di cessate il fuoco, il rilascio di alcuni ostaggi e prigionieri e un alleggerimento del blocco – lo stallo negoziale persiste. Hamas rifiuta di accettare il disarmo richiesto da Israele, che nel frattempo continua a rafforzare la sua presenza armata sul terreno.
In questo quadro, l’occupazione israeliana di vaste porzioni della Striscia appare sempre meno come una fase tattica e sempre più come un’imposizione duratura. Per il popolo palestinese, la prospettiva è quella di un futuro frammentato, militarizzato, sotto assedio permanente.
https://www.wsj.com/world/middle-east/israel-has-taken-over-about-a-third-of-the-gaza-strip-9e82d2ea
Nell’articolo "Israel Has Taken Over About a Third of the Gaza Strip", firmato da Dov Lieber, Summer Said e Abeer Ayyoub e pubblicato sul Wall Street Journal il 15 aprile 2025, viene analizzata la crescente espansione dell’esercito israeliano all’interno della Striscia di Gaza, dove le forze di Tel Aviv hanno ormai assunto il controllo diretto di circa un terzo del territorio. Questo nuovo sviluppo segna un cambiamento significativo nella condotta del conflitto: da operazioni rapide e mirate si è passati a una strategia di occupazione territoriale prolungata, che sta generando profonde ripercussioni politiche, sociali e umanitarie.
Secondo quanto riportato, l’obiettivo dichiarato da Israele è quello di esercitare ulteriore pressione su Hamas per ottenere la liberazione degli ostaggi israeliani catturati durante l’attacco del 7 ottobre 2023. Ma dietro la retorica della sicurezza, molti analisti leggono una volontà esplicita di ridisegnare la geografia politica della Striscia, spezzandone l’unità e frammentandone il tessuto sociale. Ne sono esempio i corridoi militari – come il “Morag Corridor” nel sud e il “Netzarim Corridor” nel nord – che dividono Gaza in più zone scollegate, impedendo il movimento interno e ostacolando ogni forma di vita civile. Le forze israeliane presidiano queste aree stabilmente, trasformandole di fatto in territori occupati sotto sorveglianza permanente.
Nel frattempo, la popolazione palestinese continua a pagare un prezzo altissimo. Gli sfollati si contano a centinaia di migliaia, costretti a lasciare ripetutamente le proprie abitazioni in cerca di sicurezza che spesso non esiste. Le Nazioni Unite stimano che circa due terzi del territorio di Gaza siano oggi soggetti a ordini di evacuazione o considerati inaccessibili. La situazione umanitaria è al collasso: mancano cibo, acqua potabile, cure mediche, elettricità. E mentre si parla di una possibile tregua mediata dall’Egitto – che includerebbe 70 giorni di cessate il fuoco, il rilascio di alcuni ostaggi e prigionieri e un alleggerimento del blocco – lo stallo negoziale persiste. Hamas rifiuta di accettare il disarmo richiesto da Israele, che nel frattempo continua a rafforzare la sua presenza armata sul terreno.
In questo quadro, l’occupazione israeliana di vaste porzioni della Striscia appare sempre meno come una fase tattica e sempre più come un’imposizione duratura. Per il popolo palestinese, la prospettiva è quella di un futuro frammentato, militarizzato, sotto assedio permanente.
https://www.wsj.com/world/middle-east/israel-has-taken-over-about-a-third-of-the-gaza-strip-9e82d2ea
14.04.202520:37
🇵🇸🇮🇱 HAMAS PRONTA A LIBERARE TUTTI GLI OSTAGGI IN CAMBIO DEL CESSATE IL FUOCO E DEL RITIRO TOTALE DALLA STRISCIA
In un momento critico del conflitto, un leader di Hamas ha dichiarato la disponibilità del movimento a rilasciare tutti i prigionieri israeliani detenuti nella Striscia in cambio di due condizioni fondamentali: un cessate il fuoco permanente e il ritiro totale delle forze israeliane da Gaza. Lo riporta Reuters, citando fonti dirette vicine ai negoziati.
La proposta segna un punto di svolta potenziale, ma si scontra con l’intransigenza israeliana: la bozza presentata da Tel Aviv ai mediatori prevede il disarmo totale della Striscia senza contemplare il ritiro militare, lasciando quindi intatta l’occupazione sul terreno.
Questa posizione solleva forti critiche da parte del fronte filo-palestinese, che denuncia l’ennesimo tentativo di imporre una “pace armata” sotto l’egida di un’occupazione militare. Mentre Gaza continua a contare le vittime e i danni di mesi di bombardamenti, la richiesta di Hamas – per quanto controversa in ambito internazionale – appare come un appello chiaro alla fine del massacro e all’avvio di una ricostruzione possibile solo in assenza di forze straniere.
Il movimento palestinese ha già dimostrato aperture in merito al numero di ostaggi da liberare e ai tempi, segnale che una soluzione negoziata resta sul tavolo. Ma senza garanzie reali per la popolazione civile di Gaza, la pace rischia di restare un’illusione.
https://www.reuters.com/world/middle-east/no-breakthrough-gaza-talks-egyptian-palestinian-sources-say-2025-04-14/
In un momento critico del conflitto, un leader di Hamas ha dichiarato la disponibilità del movimento a rilasciare tutti i prigionieri israeliani detenuti nella Striscia in cambio di due condizioni fondamentali: un cessate il fuoco permanente e il ritiro totale delle forze israeliane da Gaza. Lo riporta Reuters, citando fonti dirette vicine ai negoziati.
La proposta segna un punto di svolta potenziale, ma si scontra con l’intransigenza israeliana: la bozza presentata da Tel Aviv ai mediatori prevede il disarmo totale della Striscia senza contemplare il ritiro militare, lasciando quindi intatta l’occupazione sul terreno.
Questa posizione solleva forti critiche da parte del fronte filo-palestinese, che denuncia l’ennesimo tentativo di imporre una “pace armata” sotto l’egida di un’occupazione militare. Mentre Gaza continua a contare le vittime e i danni di mesi di bombardamenti, la richiesta di Hamas – per quanto controversa in ambito internazionale – appare come un appello chiaro alla fine del massacro e all’avvio di una ricostruzione possibile solo in assenza di forze straniere.
Il movimento palestinese ha già dimostrato aperture in merito al numero di ostaggi da liberare e ai tempi, segnale che una soluzione negoziata resta sul tavolo. Ma senza garanzie reali per la popolazione civile di Gaza, la pace rischia di restare un’illusione.
https://www.reuters.com/world/middle-east/no-breakthrough-gaza-talks-egyptian-palestinian-sources-say-2025-04-14/


10.04.202520:44
Giovedì, circa 1.000 riservisti ed ex riservisti dell'aeronautica militare israeliana hanno firmato una lettera in cui chiedono il rilascio degli ostaggi trattenuti a Gaza, anche se ciò significa porre fine completamente alla guerra a Gaza.
In risposta, il comandante dell'aeronautica militare israeliana, il maggiore generale Tomer Bar, con il pieno supporto del capo di stato maggiore, tenente generale Eyal Zamir, ha deciso che qualsiasi militare che abbia firmato la lettera pubblicata questa mattina verrà immediatamente e definitivamente congedato dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF).
Le IDF hanno sottolineato che non possono tollerare che "militari in servizio attivo" firmino una lettera che esprime una mancanza di fiducia nelle forze armate.
Per saperne di più:
https://en.mdn.tv/8Ozb
In risposta, il comandante dell'aeronautica militare israeliana, il maggiore generale Tomer Bar, con il pieno supporto del capo di stato maggiore, tenente generale Eyal Zamir, ha deciso che qualsiasi militare che abbia firmato la lettera pubblicata questa mattina verrà immediatamente e definitivamente congedato dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF).
Le IDF hanno sottolineato che non possono tollerare che "militari in servizio attivo" firmino una lettera che esprime una mancanza di fiducia nelle forze armate.
Per saperne di più:
https://en.mdn.tv/8Ozb


09.04.202516:38
La celebre youtuber educativa per bambini, Ms. Rachel, è finita nel mirino del gruppo di pressione pro-Israele “Stop Anti-Semitism”, che l'accusa di aver ricevuto finanziamenti stranieri per sostenere Hamas.
La popolare educatrice ha espresso solidarietà ai bambini palestinesi, limitandosi a manifestare preoccupazione per i loro diritti umani. Ha inoltre rivolto parole di sostegno anche ai bambini israeliani, citando ad esempio la famiglia Bibas.
Nonostante ciò, alcune lobby sioniste stanno conducendo una campagna diffamatoria contro di lei, chiedendo un’indagine sui suoi finanziamenti e accusandola di diffondere propaganda di Hamas e antisemitismo, semplicemente per aver denunciato i massacri e la fame che colpiscono i bambini di Gaza a causa delle operazioni militari israeliane.
La popolare educatrice ha espresso solidarietà ai bambini palestinesi, limitandosi a manifestare preoccupazione per i loro diritti umani. Ha inoltre rivolto parole di sostegno anche ai bambini israeliani, citando ad esempio la famiglia Bibas.
Nonostante ciò, alcune lobby sioniste stanno conducendo una campagna diffamatoria contro di lei, chiedendo un’indagine sui suoi finanziamenti e accusandola di diffondere propaganda di Hamas e antisemitismo, semplicemente per aver denunciato i massacri e la fame che colpiscono i bambini di Gaza a causa delle operazioni militari israeliane.
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