18.04.202515:34
BRING THE BOYS BACK HOME 🔊


17.04.202511:08
VERA
Il brano Vera, dall’album The Wall del 1979, apre con alcuni dialoghi televisivi in sottofondo: provengono dal film di guerra “I lunghi giorni delle aquile”, pellicola del 1969.
Le scene militari scavano nelle ferite aperte di Pink, riportandolo al pensiero del padre caduto in battaglia. Per sviscerare il tema dell’assenza Roger Waters ricorre al personaggio di Vera Lynn, simbolo generazionale inglese amatissimo in patria.
La cantante (il cui vero nome era Vera Margaret Lewis) aveva assunto il ruolo di interprete delle speranze di ricongiungimento fra i soldati partiti per il fronte e i loro cari.
Ne fu espressione dolce e nostalgica la canzone We’ll Meet Again (“Ci incontreremo ancora”), portata al successo dalla Lynn nel 1939, anno delle prime ostilità del secondo conflitto mondiale. La frase portante del brano, da cui Waters trasse parte delle parole di Vera, recitava: ”We’ll meet again/Don’t know where/Don’t know when/But I know we’ll meet again some sunny day” ("Ci incontreremo ancora/Non so dove/Non so quando/Ma so che ci incontreremo in una giornata di sole”).
La versione demo di Waters (edizione “Immersion”, Disco 6, traccia 2) conteneva in coda la continuazione del tema di Is There Anybody Out There?. Protagonista di un film intitolato proprio We’ll Meet Again e conduttrice per BBC Radio di Sincerely Yours, un programma all’epoca molto seguito, Vera Lynn è rimasta nelle grazie del pubblico inglese: nel 2009 una sua raccolta scalzò dal primo posto in classifica nientemeno che il bestseller The Beatles 1.
Nel film Pink Floyd The Wall la prima scena è accompagnata da un’altra canzone della Lynn: The Little Boy That Santa Claus Forgot (“Il bimbo che Babbo Natale dimenticò”).
Il brano Vera, dall’album The Wall del 1979, apre con alcuni dialoghi televisivi in sottofondo: provengono dal film di guerra “I lunghi giorni delle aquile”, pellicola del 1969.
Le scene militari scavano nelle ferite aperte di Pink, riportandolo al pensiero del padre caduto in battaglia. Per sviscerare il tema dell’assenza Roger Waters ricorre al personaggio di Vera Lynn, simbolo generazionale inglese amatissimo in patria.
La cantante (il cui vero nome era Vera Margaret Lewis) aveva assunto il ruolo di interprete delle speranze di ricongiungimento fra i soldati partiti per il fronte e i loro cari.
Ne fu espressione dolce e nostalgica la canzone We’ll Meet Again (“Ci incontreremo ancora”), portata al successo dalla Lynn nel 1939, anno delle prime ostilità del secondo conflitto mondiale. La frase portante del brano, da cui Waters trasse parte delle parole di Vera, recitava: ”We’ll meet again/Don’t know where/Don’t know when/But I know we’ll meet again some sunny day” ("Ci incontreremo ancora/Non so dove/Non so quando/Ma so che ci incontreremo in una giornata di sole”).
La versione demo di Waters (edizione “Immersion”, Disco 6, traccia 2) conteneva in coda la continuazione del tema di Is There Anybody Out There?. Protagonista di un film intitolato proprio We’ll Meet Again e conduttrice per BBC Radio di Sincerely Yours, un programma all’epoca molto seguito, Vera Lynn è rimasta nelle grazie del pubblico inglese: nel 2009 una sua raccolta scalzò dal primo posto in classifica nientemeno che il bestseller The Beatles 1.
Nel film Pink Floyd The Wall la prima scena è accompagnata da un’altra canzone della Lynn: The Little Boy That Santa Claus Forgot (“Il bimbo che Babbo Natale dimenticò”).
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17.04.202509:53
ECLIPSE
Il gruppo cercava un vero finale per chiudere il disco The Dark Side Of The Moon del 1973, qualcosa di realmente conclusivo e d’impatto. Come per Breathe, anche in questa circostanza Waters trasse ispirazione da The Body: guardò all’ultima traccia intitolata Give Birth To A Smile, dalla quale attinse l’idea delle voci femminili e dell’incalzante e ripetitivo uso delle liriche.
Eclipse fu presentata al gruppo durante il tour inglese del 1972 e lavorata in studio con la precisa intenzione di creare un climax ascendente, dal punto di vista sia musicale sia concettuale: ”Quando Doris Troy eseguì la sua parte canora in Eclipse”, racconta Waters, “capimmo che era il climax che volevamo e che avevamo portato a casa il disco”.
Wright: ”È un finale fantastico. La musica cresce, prende corpo, aumenta in decibel. Decidemmo di alzarla ancora. Lasciando per un momento il tono cupo delle parole, direi che in questa canzone c’è speranza proprio in virtù della musica”. Follia ed ossessione esplodono prepotenti fino al ritorno del battito cardiaco che chiude circolarmente la suite riallacciandola al preludio.
La voce in chiusura è quella di Jerry O’Driscoll (il custode irlandese degli studi di Abbey Road): ”There is no dark side of the moon really.Matter of fact it’s all dark”. Con buoni apparecchi di riproduzione e una versione da audiofili del disco è possibile captare una curiosità in coda: mentre i battiti sfumano emerge il motivo di Ticket To Ride dei Beatles; non è chiaro se proveniente dall’esterno dello studio o dal nastro utilizzato per l’intervista a O’Driscoll.
Il gruppo cercava un vero finale per chiudere il disco The Dark Side Of The Moon del 1973, qualcosa di realmente conclusivo e d’impatto. Come per Breathe, anche in questa circostanza Waters trasse ispirazione da The Body: guardò all’ultima traccia intitolata Give Birth To A Smile, dalla quale attinse l’idea delle voci femminili e dell’incalzante e ripetitivo uso delle liriche.
Eclipse fu presentata al gruppo durante il tour inglese del 1972 e lavorata in studio con la precisa intenzione di creare un climax ascendente, dal punto di vista sia musicale sia concettuale: ”Quando Doris Troy eseguì la sua parte canora in Eclipse”, racconta Waters, “capimmo che era il climax che volevamo e che avevamo portato a casa il disco”.
Wright: ”È un finale fantastico. La musica cresce, prende corpo, aumenta in decibel. Decidemmo di alzarla ancora. Lasciando per un momento il tono cupo delle parole, direi che in questa canzone c’è speranza proprio in virtù della musica”. Follia ed ossessione esplodono prepotenti fino al ritorno del battito cardiaco che chiude circolarmente la suite riallacciandola al preludio.
La voce in chiusura è quella di Jerry O’Driscoll (il custode irlandese degli studi di Abbey Road): ”There is no dark side of the moon really.Matter of fact it’s all dark”. Con buoni apparecchi di riproduzione e una versione da audiofili del disco è possibile captare una curiosità in coda: mentre i battiti sfumano emerge il motivo di Ticket To Ride dei Beatles; non è chiaro se proveniente dall’esterno dello studio o dal nastro utilizzato per l’intervista a O’Driscoll.
17.04.202509:46
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17.04.202509:40
POW R. TOC H. 🔊
Pow R. Toc H. è la quinta traccia della versione inglese dell'album che diede inizio a tutto: The Piper At The Gates Of Dawn, pubblicato nel 1967.
Pow R. Toc H. è la quinta traccia della versione inglese dell'album che diede inizio a tutto: The Piper At The Gates Of Dawn, pubblicato nel 1967.


12.04.202520:24
POINT ME AT THE SKY
Point Me At The Sky è l’ennesimo singolo pubblicato dalla band nel dicembre del 1968.
Era il lato A di un 45 giri che conteneva nel lato B Careful With That Axe Eugene, destinata ad assumere un’importanza capitale negli anni a venire.
Il singolo Point Me At The Sky rappresenta le prime prove tecniche di collaborazione tra Waters e Gilmour, impegnati nella loro prima scrittura a quattro mani:operazione ad uso e consumo della EMI, che scalpitava imperterrita per ottenere un singolo capace di scalare le alte vette dei primi capolavori barrettiani.
Ai due occorse tempo per amalgamarsi, con mesi di studio reciproco volti ad armonizzare le caratteristiche di ognuno. Inizialmente a David venne chiesto di “fare il Syd” ma un po’ alla volta, sentendosi sempre più parte del gruppo, riuscì ad essere libero di imporre il suo stile chitarristico. Il risultato finale è ancora parzialmente acerbo e certo non confortato dalla pessima risposta in termini di vendite: l’ennesimo obiettivo fallito, al punto che il gruppo, abbracciando un’idea già serpeggiante in epoca barrettiana, abbandonò di fatto (e senza rimpianti) la produzione di canzoni appositamente confezionate per il mercato dei singoli.
Point Me At The Sky è l’ultimo brano di quel periodo a immergersi in tematiche intrise di fantascienza e, come nel caso di Set The Control For The Heart Of The Sun, ripropone voli di fantasia legati ad un viaggio immaginifico. La vicenda narra di un tale Henry McLean che invita l’amata Gene (da non confondersi con Eugene, uomo, protagonista del lato B) sulla fantastica macchina volante che ha appena finito di costruire. L’invocazione “puntami verso il cielo e fammi volare” risuona come un desiderio di alienazione dal quotidiano e di affidamento alle imperscrutabili logiche del destino, per quanto non si escluda che la tematica del brano possa sottintendere altri tipi di fuga.
Roger Waters compie i suoi primi passi verso una ricerca d’identità come autore; i concetti rimandano a squilibrio mentale, esistenzialismo, problemi di comunicazione e assenza/morte, futuri cavalli di battaglia delle sue opere più riuscite. Dal lato musicale, invece, il brano è ancora permeato di umori barrettiani.
Si sviluppa in un crescendo introdotto dalla voce suadente di Gilmour, unita a pennellate di chitarra slide a cui si mescolano con efficacia il sognante organo di Wright e una vibrante sezione ritmica. La strofa successiva è cantata da Waters con nuovi inserimenti di Gilmour e una sezione corale alla Beach Boys. Lo stesso impasto vocale viene ripetuto una seconda volta, fino a quando il climax sonoro muta in una sottile rivisitazione di una sezione di Apples And Oranges, seguita dalla strofa finale cantata da Waters.
Point Me At The Sky sembra ispirarsi nelle sonorità a due classici dei Beatles: Hello Goodbye (sospetto quel “Goodbye” finale ripetuto all’infinito) e Lucy In The Sky With Diamonds: ”Point me at the sky and let it fly” ha curiosamente la stessa metrica del titolo in questione.
Il video promozionale del brano,di poco superiore ai tre minuti, alterna immagini casalinghe del gruppo (come Wright in poltrona intento ad accarezzare un gatto nero)a quelle di un biplano Tiger Moth giallo in volo. Waters compare solo per pochi secondi all’inizio, mentre David, Nick e Rick sono visibili con capelli al vento.
In realtà non è accertato se abbiano realmente volato in quell’occasione ma, considerata la loro passione per i motori (soprattutto nel caso di Mason), non è improbabile.
Del set esistono fotografie promozionali con i musicisti vestiti da aviatori; il luogo delle riprese, poi riutilizzato per gli scatti del retrocopertina di Ummagumma, è il campo di volo londinese di Biggin Hill.
Point Me At The Sky è l’ennesimo singolo pubblicato dalla band nel dicembre del 1968.
Era il lato A di un 45 giri che conteneva nel lato B Careful With That Axe Eugene, destinata ad assumere un’importanza capitale negli anni a venire.
Il singolo Point Me At The Sky rappresenta le prime prove tecniche di collaborazione tra Waters e Gilmour, impegnati nella loro prima scrittura a quattro mani:operazione ad uso e consumo della EMI, che scalpitava imperterrita per ottenere un singolo capace di scalare le alte vette dei primi capolavori barrettiani.
Ai due occorse tempo per amalgamarsi, con mesi di studio reciproco volti ad armonizzare le caratteristiche di ognuno. Inizialmente a David venne chiesto di “fare il Syd” ma un po’ alla volta, sentendosi sempre più parte del gruppo, riuscì ad essere libero di imporre il suo stile chitarristico. Il risultato finale è ancora parzialmente acerbo e certo non confortato dalla pessima risposta in termini di vendite: l’ennesimo obiettivo fallito, al punto che il gruppo, abbracciando un’idea già serpeggiante in epoca barrettiana, abbandonò di fatto (e senza rimpianti) la produzione di canzoni appositamente confezionate per il mercato dei singoli.
Point Me At The Sky è l’ultimo brano di quel periodo a immergersi in tematiche intrise di fantascienza e, come nel caso di Set The Control For The Heart Of The Sun, ripropone voli di fantasia legati ad un viaggio immaginifico. La vicenda narra di un tale Henry McLean che invita l’amata Gene (da non confondersi con Eugene, uomo, protagonista del lato B) sulla fantastica macchina volante che ha appena finito di costruire. L’invocazione “puntami verso il cielo e fammi volare” risuona come un desiderio di alienazione dal quotidiano e di affidamento alle imperscrutabili logiche del destino, per quanto non si escluda che la tematica del brano possa sottintendere altri tipi di fuga.
Roger Waters compie i suoi primi passi verso una ricerca d’identità come autore; i concetti rimandano a squilibrio mentale, esistenzialismo, problemi di comunicazione e assenza/morte, futuri cavalli di battaglia delle sue opere più riuscite. Dal lato musicale, invece, il brano è ancora permeato di umori barrettiani.
Si sviluppa in un crescendo introdotto dalla voce suadente di Gilmour, unita a pennellate di chitarra slide a cui si mescolano con efficacia il sognante organo di Wright e una vibrante sezione ritmica. La strofa successiva è cantata da Waters con nuovi inserimenti di Gilmour e una sezione corale alla Beach Boys. Lo stesso impasto vocale viene ripetuto una seconda volta, fino a quando il climax sonoro muta in una sottile rivisitazione di una sezione di Apples And Oranges, seguita dalla strofa finale cantata da Waters.
Point Me At The Sky sembra ispirarsi nelle sonorità a due classici dei Beatles: Hello Goodbye (sospetto quel “Goodbye” finale ripetuto all’infinito) e Lucy In The Sky With Diamonds: ”Point me at the sky and let it fly” ha curiosamente la stessa metrica del titolo in questione.
Il video promozionale del brano,di poco superiore ai tre minuti, alterna immagini casalinghe del gruppo (come Wright in poltrona intento ad accarezzare un gatto nero)a quelle di un biplano Tiger Moth giallo in volo. Waters compare solo per pochi secondi all’inizio, mentre David, Nick e Rick sono visibili con capelli al vento.
In realtà non è accertato se abbiano realmente volato in quell’occasione ma, considerata la loro passione per i motori (soprattutto nel caso di Mason), non è improbabile.
Del set esistono fotografie promozionali con i musicisti vestiti da aviatori; il luogo delle riprese, poi riutilizzato per gli scatti del retrocopertina di Ummagumma, è il campo di volo londinese di Biggin Hill.


18.04.202515:32
BRING THE BOYS BACK HOME
Bring The Boys Back Home, dall’album The Wall del 1979, inizia con il suono dei rullanti che conferisce solennità al brano e lo scandisce con il ritmo di una parata militare.
La voce di Waters, volutamente fuori tono, sopra le righe, svetta prepotente al di sopra dell’orchestra e pare osservare da una prospettiva diversa da quella del protagonista, come se nel disco intervenisse la voce onnisciente di un narratore al di sopra delle parti.
C’è una strofa, ripetuta con enfasi a metà tra l’esortazione e la rimostranza: ”Bring the boys back home/Don’t leave the children on their own“ (Riportate a casa i ragazzi/Non lasciate i bambini da soli”).
Waters affermò che questo era il brano centrale dell’intero disco “perché parla di ribellarsi all’idea che la gente venga uccisa dalle guerre, anche se è solo una parte del discorso; in realtà parla anche della necessità di evitare che il rock’n’roll, o costruire macchine, o vendere saponette o fare ricerche biologiche o qualsiasi altra cosa, diventi più importante di avere amici, mogli, figli, di rapportarsi col prossimo”.
Il “tornare a casa” riguarda sia i soldati al fronte sia Pink, che dovrebbe cessare la sua dilaniante guerra interiore e ritrovare la pace perduta. Sul finale della canzone il ritmo dei rullanti rallenta, mentre numerose voci compongono un mosaico con tessere provenienti dalle canzoni precedenti, un veloce flashback che precede l’inizio di Confortably Numb.
Fra queste: ”Wrong!Do it again” pronunciata dal maestro di Another Brick In The Wall parte 2, ”There’s a man answering.See,he keeps hanging up!” ripetuta dalla telefonista di Young Lust e “Are you feeling ok?”scandita dalla groupie di One Of My Turns.
Seguono la voce del manager che esorta Pink ad andare allo spettacolo (bussa alla porta della stanza d’albergo e dice “Time to go!”) e un groviglio finale di risate nevrotiche miste a ulteriori voci troncate dalla frase conclusiva “Is there anybody out there?”. Pochi attimo di silenzio sono il preludio al meraviglioso brano successivo.
Bring The Boys Back Home, dall’album The Wall del 1979, inizia con il suono dei rullanti che conferisce solennità al brano e lo scandisce con il ritmo di una parata militare.
La voce di Waters, volutamente fuori tono, sopra le righe, svetta prepotente al di sopra dell’orchestra e pare osservare da una prospettiva diversa da quella del protagonista, come se nel disco intervenisse la voce onnisciente di un narratore al di sopra delle parti.
C’è una strofa, ripetuta con enfasi a metà tra l’esortazione e la rimostranza: ”Bring the boys back home/Don’t leave the children on their own“ (Riportate a casa i ragazzi/Non lasciate i bambini da soli”).
Waters affermò che questo era il brano centrale dell’intero disco “perché parla di ribellarsi all’idea che la gente venga uccisa dalle guerre, anche se è solo una parte del discorso; in realtà parla anche della necessità di evitare che il rock’n’roll, o costruire macchine, o vendere saponette o fare ricerche biologiche o qualsiasi altra cosa, diventi più importante di avere amici, mogli, figli, di rapportarsi col prossimo”.
Il “tornare a casa” riguarda sia i soldati al fronte sia Pink, che dovrebbe cessare la sua dilaniante guerra interiore e ritrovare la pace perduta. Sul finale della canzone il ritmo dei rullanti rallenta, mentre numerose voci compongono un mosaico con tessere provenienti dalle canzoni precedenti, un veloce flashback che precede l’inizio di Confortably Numb.
Fra queste: ”Wrong!Do it again” pronunciata dal maestro di Another Brick In The Wall parte 2, ”There’s a man answering.See,he keeps hanging up!” ripetuta dalla telefonista di Young Lust e “Are you feeling ok?”scandita dalla groupie di One Of My Turns.
Seguono la voce del manager che esorta Pink ad andare allo spettacolo (bussa alla porta della stanza d’albergo e dice “Time to go!”) e un groviglio finale di risate nevrotiche miste a ulteriori voci troncate dalla frase conclusiva “Is there anybody out there?”. Pochi attimo di silenzio sono il preludio al meraviglioso brano successivo.
17.04.202511:05
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17.04.202509:49
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17.04.202509:46
CHAPTER 24 🔊
Chapter 24 è il secondo brano registrato dell'album The Piper at the Gates of Dawn del 1967.
Il video mostra Syd Barrett, Gog Magog Hills, Cambridgeshire, Regno Unito, nel 1966 e i Pink Floyd agli EMI Studios di Londra, nell'aprile del 1967.
Chapter 24 è il secondo brano registrato dell'album The Piper at the Gates of Dawn del 1967.
Il video mostra Syd Barrett, Gog Magog Hills, Cambridgeshire, Regno Unito, nel 1966 e i Pink Floyd agli EMI Studios di Londra, nell'aprile del 1967.


17.04.202509:35
POW R. TOC H.
Dal primo album dei Pink Floyd del 1967 The Piper At The Gates Of Dawn il brano Pow R. Toc H. evidenzia come nel primo periodo il gruppo lavorasse moltissimo con le improvvisazioni. Si tratta infatti di uno strumentale composto coralmente dalla band che prendeva il nome dai suoni onomatopeici con cui spesso Barrett e Waters giocavano al microfono durante i concerti.
Queste improvvisazioni, che dal vivo potevano durare parecchi minuti, erano contraddistinte dal pianoforte, intorno al quale il gruppo seguiva lo stesso tema ripetuto all’infinito; Wright rispolverava un classico giro di blues, e sul finale un cambio d’atmosfera sonora portava lentamente al termine il brano con suoni prima molto controllati e poi confusi, in un pandemonio sonoro molto accattivante. Il brano seguiva la struttura dell’altro classico floydiano del periodo, Interstellar Overdrive, con un’atmosfera generale molto più rilassata e quasi jazz, che permetteva a Wright di suonare il pianoforte con uno stile che un critico paragonò a “Dave Brubeck in acido”.
Il significato del titolo potrebbe essere interpretato come “power touch”. La parola “pow” era utilizzata anche in Astronomy Domine. “Toc H” era lo spelling dell’acronimo T.H. (i militari inglesi durante la Prima Guerra Mondiale facevano lo spelling della lettera “t” con toc), abbreviazione di Talbot House, che rimanda ad un movimento cristiano internazionale attivo sin dal 1915. Piccole pillole live: la prima esecuzione nota della canzone risale al concerto tenuto alla London Free School il 14 ottobre 1966.
Nel 1969 il brano fu ripreso dal gruppo nella suite The Journey, dove prendeva il nome di The Pink Jungle. Il 21 marzo 1967,dopo la seduta di registrazione di Pow R. Toc H., i Pink Floyd videro esaudito il loro desiderio di conoscere i Beatles, che quella sera stavano lavorando nello Studio 2 ai brani del futuro Sgt.Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
Il ricordo dei floyd era come quello di incontrare la famiglia reale anche se John Lennon, a differenza degli altri membri dei Beatles, quella sera non ebbe un atteggiamento tanto amichevole. Quella sera infatti John aveva fatto la sua prima esperienza con l’acido in studio: si era sentito male ed era stato accompagnato sul tetto degli studi di Abbey Road per una boccata di aria fresca; per questo è facile presumere che il suo comportamento non fosse propriamente lucido.
Dal primo album dei Pink Floyd del 1967 The Piper At The Gates Of Dawn il brano Pow R. Toc H. evidenzia come nel primo periodo il gruppo lavorasse moltissimo con le improvvisazioni. Si tratta infatti di uno strumentale composto coralmente dalla band che prendeva il nome dai suoni onomatopeici con cui spesso Barrett e Waters giocavano al microfono durante i concerti.
Queste improvvisazioni, che dal vivo potevano durare parecchi minuti, erano contraddistinte dal pianoforte, intorno al quale il gruppo seguiva lo stesso tema ripetuto all’infinito; Wright rispolverava un classico giro di blues, e sul finale un cambio d’atmosfera sonora portava lentamente al termine il brano con suoni prima molto controllati e poi confusi, in un pandemonio sonoro molto accattivante. Il brano seguiva la struttura dell’altro classico floydiano del periodo, Interstellar Overdrive, con un’atmosfera generale molto più rilassata e quasi jazz, che permetteva a Wright di suonare il pianoforte con uno stile che un critico paragonò a “Dave Brubeck in acido”.
Il significato del titolo potrebbe essere interpretato come “power touch”. La parola “pow” era utilizzata anche in Astronomy Domine. “Toc H” era lo spelling dell’acronimo T.H. (i militari inglesi durante la Prima Guerra Mondiale facevano lo spelling della lettera “t” con toc), abbreviazione di Talbot House, che rimanda ad un movimento cristiano internazionale attivo sin dal 1915. Piccole pillole live: la prima esecuzione nota della canzone risale al concerto tenuto alla London Free School il 14 ottobre 1966.
Nel 1969 il brano fu ripreso dal gruppo nella suite The Journey, dove prendeva il nome di The Pink Jungle. Il 21 marzo 1967,dopo la seduta di registrazione di Pow R. Toc H., i Pink Floyd videro esaudito il loro desiderio di conoscere i Beatles, che quella sera stavano lavorando nello Studio 2 ai brani del futuro Sgt.Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
Il ricordo dei floyd era come quello di incontrare la famiglia reale anche se John Lennon, a differenza degli altri membri dei Beatles, quella sera non ebbe un atteggiamento tanto amichevole. Quella sera infatti John aveva fatto la sua prima esperienza con l’acido in studio: si era sentito male ed era stato accompagnato sul tetto degli studi di Abbey Road per una boccata di aria fresca; per questo è facile presumere che il suo comportamento non fosse propriamente lucido.
12.04.202520:21
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17.04.202511:10
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17.04.202511:05
ECLIPSE 🔊
Riprese dal vivo il 20 ottobre 1994 a Earls Court, Londra. Restaurato e rimontato nel 2019 a partire dai master originali.
Riprese dal vivo il 20 ottobre 1994 a Earls Court, Londra. Restaurato e rimontato nel 2019 a partire dai master originali.


17.04.202509:49
WHEN YOU'RE IN 🔊
When You're In è un brano tratto dal settimo album Obscured by Clouds, pubblicato il 2 giugno 1972.
When You're In è un brano tratto dal settimo album Obscured by Clouds, pubblicato il 2 giugno 1972.


17.04.202509:45
CHAPTER 24
In un’intervista dell’epoca, Syd Barrett rivelava come il brano Chapter 24 dall’album The Piper At The Gates Of Dawn del 1967 veniva dall’I Ching, di cui i membri del gruppo erano appassionati in quel periodo. Nel 1966 Syd fu introdotto dalla madre di un suo amico all’I Ching, un antico testo divinatorio cinese molto diffuso negli anni ‘60, tanto che John Lennon se ne servì nel 1968 per compiere scelte importanti relative agli affari e George Harrison lo utilizzò per comporre While My Guitat Gently Wheeps.
L’edizione in possesso di Barrett era probabilmente la traduzione del libro realizzata da Richard Wilhelm nel 1951. Il ventiquattresimo ideogramma dell’I Ching (cui si ispira la canzone) è definito con la parola cinese “Fu’”, ossia il Ritorno, che in quell’edizione esprimeva la seguente sentenza: ”Success.Going out and coming in without error.Friends come without blame.To and fro goes the way.On the seventh day comes return.It furthers one to have somewhere to go”.
Molte di queste parole furono prese da Barrett e utilizzate come testo del brano. Chapter 24, seconda canzone incisa per l’album, inizia con il gong di Waters e prosegue con organo, basso suonato con l’archetto e chitarra; Mason suona le campane tubolari utilizzando dei martelli di gomma.
In seguito vennero sovraincisi l’armonium e i piatti. L’unica esecuzione live documentata del brano fu al Club A’Gogo di Newcastle-upon-Tyne, il 19 maggio 1967.
In un’intervista dell’epoca, Syd Barrett rivelava come il brano Chapter 24 dall’album The Piper At The Gates Of Dawn del 1967 veniva dall’I Ching, di cui i membri del gruppo erano appassionati in quel periodo. Nel 1966 Syd fu introdotto dalla madre di un suo amico all’I Ching, un antico testo divinatorio cinese molto diffuso negli anni ‘60, tanto che John Lennon se ne servì nel 1968 per compiere scelte importanti relative agli affari e George Harrison lo utilizzò per comporre While My Guitat Gently Wheeps.
L’edizione in possesso di Barrett era probabilmente la traduzione del libro realizzata da Richard Wilhelm nel 1951. Il ventiquattresimo ideogramma dell’I Ching (cui si ispira la canzone) è definito con la parola cinese “Fu’”, ossia il Ritorno, che in quell’edizione esprimeva la seguente sentenza: ”Success.Going out and coming in without error.Friends come without blame.To and fro goes the way.On the seventh day comes return.It furthers one to have somewhere to go”.
Molte di queste parole furono prese da Barrett e utilizzate come testo del brano. Chapter 24, seconda canzone incisa per l’album, inizia con il gong di Waters e prosegue con organo, basso suonato con l’archetto e chitarra; Mason suona le campane tubolari utilizzando dei martelli di gomma.
In seguito vennero sovraincisi l’armonium e i piatti. L’unica esecuzione live documentata del brano fu al Club A’Gogo di Newcastle-upon-Tyne, il 19 maggio 1967.
12.04.202520:30
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12.04.202520:21
IT WOULD BE SO NICE 🔊
Il primo singolo dopo Syd Barrett It Would Be So Nice, fu scritto dal tastierista Richard Wright e registrato nel febbraio del 1968.
Il singolo (il primo singolo con David Gilmour) fu pubblicato il 19 aprile 1968 e non riuscì a scalfire le classifiche.
Il primo singolo dopo Syd Barrett It Would Be So Nice, fu scritto dal tastierista Richard Wright e registrato nel febbraio del 1968.
Il singolo (il primo singolo con David Gilmour) fu pubblicato il 19 aprile 1968 e non riuscì a scalfire le classifiche.


17.04.202511:10
VERA 🔊
Vera, dal film The Wall del 1982
Vera, dal film The Wall del 1982
17.04.202509:54
ECLIPSE 🔊
Eclipse è l'ultimo brano dell'album Dark Side of the Moon del 1973
Eclipse è l'ultimo brano dell'album Dark Side of the Moon del 1973


17.04.202509:48
WHEN YOU'RE IN
When You’re In, dall’album Obscured By Clouds del 1972, è la coda del brano d’apertura che dà il nome al disco, incisa con un altro titolo con la probabile intenzione di trarre profitto da maggiori diritti d’autore. Non venne inserita nel film di Schroeder La Vallee’.
Riprende il tema di Obscured By Clouds ma è decisamente più vigorosa ed è eseguita dalla band al completo; il finale in fade-out sembra sfumare su una sezione di tipica improvvisazione floydiana. Sembrano esserci riferimenti alla canzone precedente anche in relazione al titolo: ”Quando ci sei dentro” pare riallacciarsi alla ricerca della montagna “nascosta fra le nuvole” che anima la vicenda del film. Non solo: ”I’m in.And where you’re in, you’re in” era il leitmotiv del roadie Chris Adamson, futura star di The Dark Side Of The Moon grazie al suo parlato in apertura di Speak To Me, scandito ogni volta che veniva chiamato per qualche riparazione di emergenza.
Durante le esecuzioni dal vivo i Pink Floyd erano soliti dilatare il brano con improvvisazioni di tastiere e chitarra fino alla lunghezza complessiva di otto minuti.
When You’re In, dall’album Obscured By Clouds del 1972, è la coda del brano d’apertura che dà il nome al disco, incisa con un altro titolo con la probabile intenzione di trarre profitto da maggiori diritti d’autore. Non venne inserita nel film di Schroeder La Vallee’.
Riprende il tema di Obscured By Clouds ma è decisamente più vigorosa ed è eseguita dalla band al completo; il finale in fade-out sembra sfumare su una sezione di tipica improvvisazione floydiana. Sembrano esserci riferimenti alla canzone precedente anche in relazione al titolo: ”Quando ci sei dentro” pare riallacciarsi alla ricerca della montagna “nascosta fra le nuvole” che anima la vicenda del film. Non solo: ”I’m in.And where you’re in, you’re in” era il leitmotiv del roadie Chris Adamson, futura star di The Dark Side Of The Moon grazie al suo parlato in apertura di Speak To Me, scandito ogni volta che veniva chiamato per qualche riparazione di emergenza.
Durante le esecuzioni dal vivo i Pink Floyd erano soliti dilatare il brano con improvvisazioni di tastiere e chitarra fino alla lunghezza complessiva di otto minuti.
17.04.202509:45
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12.04.202520:27
POINT ME AT THE SKY 🔊


12.04.202520:18
IT WOULD BE SO NICE
It Would Be So Nice è il quarto singolo del gruppo uscito nell’aprile del 1968 come lato A del 45 giri che conteneva nel lato B la più fortunata Julia Dream.
La canzone vanta, a vario titolo, alcuni primati: segna l’esordio di David Gilmour (chitarra e coro) in una pubblicazione dei Pink Floyd e contemporaneamente si profila come il primo brano a segnare l’assenza di Barrett dalla formazione.
È inoltre mestamente ricordato come il secondo singolo consecutivo della band a non entrare nelle classifiche inglesi. Mason racconta che il disco nacque a causa delle continue pressioni che venivano fatte al gruppo affinché producessero dei singoli. Wright (autore della canzone) aveva immaginato il brano come omaggio a Wouldn’t It Be Nice dei Beach Boys, dal quale attinse il tema scanzonato e l’utilizzo dei cori, ben lontani però dalla perfezione degli intrecci vocali della band americana.
Trapela dal gruppo l’ammissione del cambio in corsa di una piccola sezione del testo relativa al nome del quotidiano Evening Standard, modificato in un inesistente Daily Standard per problemi di censura. Musicalmente il brano, che in fase di lavorazione era intitolato It Should Be So Nice, riprendeva i ritmi e le atmosfere di Flaming, compreso il fischio di Waters.
L’apporto di Gilmour nella registrazione si limitò ad un arpeggio di accompagnamento e a un accenno di effetto wah-wah in prossimità dello sfumato finale. Le copie promozionali spedite per le recensioni contenevano un messaggio in cui si precisava che il brano era stato editato e accorciato per la trasmissione radio.
Fu Waters stesso a stroncare il brano senza riserve in un’intervista al Melody Marker del 18 maggio 1968: ”Non apprezzo né la canzone né il modo in cui è cantata.Produrre singoli ci riguardava ma fino a un certo punto,non erano proprio essenziali”. Le vendite del singolo furono infatti deludenti, aumentandone d’altro lato il valore collezionistico a causa della scarsa tiratura. Il brano fu eseguito dal vivo al Brighton Arts Festival l’11 maggio 1968.
It Would Be So Nice è il quarto singolo del gruppo uscito nell’aprile del 1968 come lato A del 45 giri che conteneva nel lato B la più fortunata Julia Dream.
La canzone vanta, a vario titolo, alcuni primati: segna l’esordio di David Gilmour (chitarra e coro) in una pubblicazione dei Pink Floyd e contemporaneamente si profila come il primo brano a segnare l’assenza di Barrett dalla formazione.
È inoltre mestamente ricordato come il secondo singolo consecutivo della band a non entrare nelle classifiche inglesi. Mason racconta che il disco nacque a causa delle continue pressioni che venivano fatte al gruppo affinché producessero dei singoli. Wright (autore della canzone) aveva immaginato il brano come omaggio a Wouldn’t It Be Nice dei Beach Boys, dal quale attinse il tema scanzonato e l’utilizzo dei cori, ben lontani però dalla perfezione degli intrecci vocali della band americana.
Trapela dal gruppo l’ammissione del cambio in corsa di una piccola sezione del testo relativa al nome del quotidiano Evening Standard, modificato in un inesistente Daily Standard per problemi di censura. Musicalmente il brano, che in fase di lavorazione era intitolato It Should Be So Nice, riprendeva i ritmi e le atmosfere di Flaming, compreso il fischio di Waters.
L’apporto di Gilmour nella registrazione si limitò ad un arpeggio di accompagnamento e a un accenno di effetto wah-wah in prossimità dello sfumato finale. Le copie promozionali spedite per le recensioni contenevano un messaggio in cui si precisava che il brano era stato editato e accorciato per la trasmissione radio.
Fu Waters stesso a stroncare il brano senza riserve in un’intervista al Melody Marker del 18 maggio 1968: ”Non apprezzo né la canzone né il modo in cui è cantata.Produrre singoli ci riguardava ma fino a un certo punto,non erano proprio essenziali”. Le vendite del singolo furono infatti deludenti, aumentandone d’altro lato il valore collezionistico a causa della scarsa tiratura. Il brano fu eseguito dal vivo al Brighton Arts Festival l’11 maggio 1968.
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