
Carmen Tortora
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20.04.202518:59
FREEDOM CITIES: LA DISTOPIA LIBERTARIA IN VERSIONE PREMIUM
Quando la democrazia viene rottamata e la sovranità va in outsourcing a Silicon Valley
Nel marzo 2023 Donald Trump rispolvera le “Freedom Cities” con l’entusiasmo da televendita futurista: un mondo nuovo, supertecnologico, dove finalmente tutto funziona perché gestito da privati. Il sogno americano 2.0, aggiornato alla versione libertaria: niente più Stato, solo servizi. Paghi, accetti le condizioni, entri. Non paghi, ti sloggano. La verità? Non è un sogno. È un incubo in abbonamento mensile.
Dietro il packaging brillante c’è la solita vecchia truffa del potere privato mascherato da progresso. A spingere il carro ci sono i profeti del tecno-feudalesimo: Peter Thiel, Balaji Srinivasan, Curtis Yarvin. Gente che considera la democrazia un errore storico da archiviare, e la sovranità pubblica un bug da correggere. Nella loro visione, lo Stato è un’app obsoleta da disinstallare. Al suo posto? Una città-smart dove non sei un cittadino, ma un utente con password. Nessun diritto garantito: solo licenze d’uso revocabili.
Tutto è privatizzato: scuole, ospedali, sicurezza, giustizia, perfino la moneta. Il welfare? Rimosso per "incompatibilità con il nuovo sistema". Se ti ammali, paghi. Se non paghi, muori. La giustizia è un arbitrato privato. Le regole non le scrive il parlamento, ma il consiglio di amministrazione. Se protesti, il sistema ti chiude la sessione. Service denied.
E non finisce qui. I guru della Silicon Valley non si accontentano delle ZES tropicali: puntano alla Groenlandia. Sì, proprio quell’enorme blocco di ghiaccio strategico e minerario. Secondo un’inchiesta Reuters del 10 aprile, mentre l’amministrazione Trump giocava la carta dell’acquisizione—anche militare—dell’isola dalla Danimarca, alcuni investitori tecnologici promuovevano la Groenlandia come futura “città della libertà”. Un’utopia libertaria con regolazione aziendale al minimo sindacale: praticamente il paradiso fiscale su ghiaccio.
A guidare i contatti diplomatici c’era Ken Howery, co-fondatore insieme a Thiel di un fondo di venture capital e amico di Elon Musk. È lui che doveva trattare con i danesi per trasformare la Groenlandia nel primo prototipo planetario di governance aziendale totale. Nessuno lo dice esplicitamente, ma il piano è semplice: prendere un territorio strategico, scollegarlo dalla sovranità pubblica e trasformarlo in un’area di sperimentazione privata dove tutto è permesso, purché tu abbia il portafoglio giusto.
Altro che progresso. Le Freedom Cities sono la Disneyland del neoliberismo terminale, l’incarnazione della “libertà” come privilegio per pochi e condanna per tutti gli altri. Non sono il futuro. Sono il presente che si rivela per quello che è: un’operazione chirurgica per estirpare ogni residuo di sovranità popolare e rimpiazzarlo con piattaforme proprietarie.
Ti danno la “libertà” di scegliere il tuo piano tariffario. Basic, Silver o Platinum. Ma se rifiuti il contratto, non è che voti per cambiare le cose. Ti disconnettono e via.
Altro che città del futuro: sono gabbie d’oro per cavie del capitalismo. E il peggio? Le stiamo accogliendo a braccia aperte, confondendole per libertà.
Per restare sempre in contatto senza censure, seguite il mio canale Telegram: https://t.me/carmen_tortora1
Quando la democrazia viene rottamata e la sovranità va in outsourcing a Silicon Valley
Nel marzo 2023 Donald Trump rispolvera le “Freedom Cities” con l’entusiasmo da televendita futurista: un mondo nuovo, supertecnologico, dove finalmente tutto funziona perché gestito da privati. Il sogno americano 2.0, aggiornato alla versione libertaria: niente più Stato, solo servizi. Paghi, accetti le condizioni, entri. Non paghi, ti sloggano. La verità? Non è un sogno. È un incubo in abbonamento mensile.
Dietro il packaging brillante c’è la solita vecchia truffa del potere privato mascherato da progresso. A spingere il carro ci sono i profeti del tecno-feudalesimo: Peter Thiel, Balaji Srinivasan, Curtis Yarvin. Gente che considera la democrazia un errore storico da archiviare, e la sovranità pubblica un bug da correggere. Nella loro visione, lo Stato è un’app obsoleta da disinstallare. Al suo posto? Una città-smart dove non sei un cittadino, ma un utente con password. Nessun diritto garantito: solo licenze d’uso revocabili.
Tutto è privatizzato: scuole, ospedali, sicurezza, giustizia, perfino la moneta. Il welfare? Rimosso per "incompatibilità con il nuovo sistema". Se ti ammali, paghi. Se non paghi, muori. La giustizia è un arbitrato privato. Le regole non le scrive il parlamento, ma il consiglio di amministrazione. Se protesti, il sistema ti chiude la sessione. Service denied.
E non finisce qui. I guru della Silicon Valley non si accontentano delle ZES tropicali: puntano alla Groenlandia. Sì, proprio quell’enorme blocco di ghiaccio strategico e minerario. Secondo un’inchiesta Reuters del 10 aprile, mentre l’amministrazione Trump giocava la carta dell’acquisizione—anche militare—dell’isola dalla Danimarca, alcuni investitori tecnologici promuovevano la Groenlandia come futura “città della libertà”. Un’utopia libertaria con regolazione aziendale al minimo sindacale: praticamente il paradiso fiscale su ghiaccio.
A guidare i contatti diplomatici c’era Ken Howery, co-fondatore insieme a Thiel di un fondo di venture capital e amico di Elon Musk. È lui che doveva trattare con i danesi per trasformare la Groenlandia nel primo prototipo planetario di governance aziendale totale. Nessuno lo dice esplicitamente, ma il piano è semplice: prendere un territorio strategico, scollegarlo dalla sovranità pubblica e trasformarlo in un’area di sperimentazione privata dove tutto è permesso, purché tu abbia il portafoglio giusto.
Altro che progresso. Le Freedom Cities sono la Disneyland del neoliberismo terminale, l’incarnazione della “libertà” come privilegio per pochi e condanna per tutti gli altri. Non sono il futuro. Sono il presente che si rivela per quello che è: un’operazione chirurgica per estirpare ogni residuo di sovranità popolare e rimpiazzarlo con piattaforme proprietarie.
Ti danno la “libertà” di scegliere il tuo piano tariffario. Basic, Silver o Platinum. Ma se rifiuti il contratto, non è che voti per cambiare le cose. Ti disconnettono e via.
Altro che città del futuro: sono gabbie d’oro per cavie del capitalismo. E il peggio? Le stiamo accogliendo a braccia aperte, confondendole per libertà.
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20.04.202505:04
Auguro a tutti voi, e alle persone che amate, una Pasqua di verità, di cuore e di luce. Che possiate risorgere ogni giorno, nel silenzio del cuore e nella forza dell’anima.


19.04.202517:59
Vi condivido la chiacchierata che avevo fatto con l’amico Francesco Tavoletta, una conversazione senza filtri su ciò che davvero si muove dietro le quinte della geopolitica e dell’economia globale. Spero la troviate interessante… e magari anche un po’ scomoda.
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17.04.202515:04
Assange e l’arte raffinata dell’insabbiamento istituzionale – firmato Keir Starmer & Co.
Nel civilissimo Regno Unito, dove la democrazia è sempre “esportabile” e la libertà di stampa si sventola solo quando fa comodo, il caso Assange si è trasformato in un perfetto manuale di repressione soft-core. Nessuna tortura fisica, certo: bastano burocrazia tossica, cavilli legali e una “paralisi procedurale” studiata a tavolino. Il tocco di classe? A gestire il teatrino, all’epoca, c’era Keir Starmer, oggi Premier inglese, allora a capo della Crown Prosecution Service. Che strano, eh?
Secondo i documenti, fu proprio la CPS a “consigliare” alla Svezia di non archiviare, ma nemmeno procedere. Il piano era chiaro: tenere Assange inchiodato in una specie di limbo giudiziario infinito. Il risultato? Detenzione arbitraria, secondo le Nazioni Unite. Ma tranquilli, tutto con la benedizione delle istituzioni britanniche.
E mentre Assange cercava rifugio nell’ambasciata ecuadoriana, l’avvocato chiave della CPS, Paul Close, decideva di andare in pensione... e puff! Il suo account email – contenente tutte le comunicazioni tra Londra e Stoccolma – viene cancellato. “Routine”, dicono. Una routine che cancella documenti chiave in un’indagine internazionale ancora aperta. Comodo, vero?
Ci sono voluti dieci anni, due sentenze e la tenacia di Stefania Maurizi per ottenere qualche brandello di verità. E la risposta ufficiale della CPS? “Non sappiamo quando o perché siano state eliminate le email”. Tradotto: non ci ricordiamo chi ha premuto il tasto “delete” durante uno dei più controversi casi giudiziari della nostra epoca.
La verità è che l’operazione Assange è stata una guerra sporca condotta con guanti bianchi. Hanno disintegrato un giornalista nel nome della “sicurezza nazionale”, poi hanno fatto sparire le prove con la grazia impiegatizia di un click.
E oggi? Assange è libero, ma il crimine è stato perfezionato: la giustizia occidentale ha imparato a uccidere la verità senza lasciare impronte. Tutto “secondo protocollo”, naturalmente.
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Nel civilissimo Regno Unito, dove la democrazia è sempre “esportabile” e la libertà di stampa si sventola solo quando fa comodo, il caso Assange si è trasformato in un perfetto manuale di repressione soft-core. Nessuna tortura fisica, certo: bastano burocrazia tossica, cavilli legali e una “paralisi procedurale” studiata a tavolino. Il tocco di classe? A gestire il teatrino, all’epoca, c’era Keir Starmer, oggi Premier inglese, allora a capo della Crown Prosecution Service. Che strano, eh?
Secondo i documenti, fu proprio la CPS a “consigliare” alla Svezia di non archiviare, ma nemmeno procedere. Il piano era chiaro: tenere Assange inchiodato in una specie di limbo giudiziario infinito. Il risultato? Detenzione arbitraria, secondo le Nazioni Unite. Ma tranquilli, tutto con la benedizione delle istituzioni britanniche.
E mentre Assange cercava rifugio nell’ambasciata ecuadoriana, l’avvocato chiave della CPS, Paul Close, decideva di andare in pensione... e puff! Il suo account email – contenente tutte le comunicazioni tra Londra e Stoccolma – viene cancellato. “Routine”, dicono. Una routine che cancella documenti chiave in un’indagine internazionale ancora aperta. Comodo, vero?
Ci sono voluti dieci anni, due sentenze e la tenacia di Stefania Maurizi per ottenere qualche brandello di verità. E la risposta ufficiale della CPS? “Non sappiamo quando o perché siano state eliminate le email”. Tradotto: non ci ricordiamo chi ha premuto il tasto “delete” durante uno dei più controversi casi giudiziari della nostra epoca.
La verità è che l’operazione Assange è stata una guerra sporca condotta con guanti bianchi. Hanno disintegrato un giornalista nel nome della “sicurezza nazionale”, poi hanno fatto sparire le prove con la grazia impiegatizia di un click.
E oggi? Assange è libero, ma il crimine è stato perfezionato: la giustizia occidentale ha imparato a uccidere la verità senza lasciare impronte. Tutto “secondo protocollo”, naturalmente.
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17.04.202513:05
Il Patto Pandemico: il Cavallo di Troia farmaceutico si traveste da accordo volontario
È ufficiale: i negoziatori del Pharmaceutical Hospital Emergency Industrial Complex (PHEIC) hanno messo nero su bianco il testo del nuovo “Accordo Pandemico” dell’OMS. Non è ancora legge, ma sarà discusso alla prossima Assemblea Mondiale della Sanità dal 17 al 26 maggio 2025. E, naturalmente, ogni nazione sarà “libera” di firmarlo. Libera come un pollo nel pollaio di Amadori.
Tra le perle del documento:
I “prodotti sanitari pandemici” includono TUTTO ciò che Big Pharma ha da offrire: dai test PCR ai ventilatori, fino a terapie geniche e “altre tecnologie sanitarie” non meglio specificate. La porta è spalancata alla solita pioggia di brevetti e profitti.
Si istituisce un Coordinating Financial Mechanism, una specie di mega-cassaforte globale per sostenere le spese del nuovo ordine sanitario mondiale. Ovviamente “inclusiva, trasparente e sostenibile” – traduzione: governi col cappello in mano, mentre le multinazionali raccolgono dividendi.
I finanziamenti saranno coordinati dalla Conference of the Parties (COP – non quella sul clima, ma una sorella gemella). Sarà questo organo a decidere cosa conta come “emergenza” e dove piovono i soldi. Chi controlla la COP? Indovinate.
Il colpo di scena? L’articolo 24 ribadisce che l’OMS non potrà imporre lockdown, obblighi vaccinali o chiusure. Ma tranquilli, ci penseranno i nostri tiranni locali, con il plauso del nuovo trattato e una montagna di soldi freschi in arrivo.
Insomma, non è un patto per la salute. È un contratto perenne di subordinazione sanitaria, finanziaria e industriale. Ma siccome non è “obbligatorio”, potete continuare a dormire tranquilli. Almeno finché non arriva la prossima “emergenza”.
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È ufficiale: i negoziatori del Pharmaceutical Hospital Emergency Industrial Complex (PHEIC) hanno messo nero su bianco il testo del nuovo “Accordo Pandemico” dell’OMS. Non è ancora legge, ma sarà discusso alla prossima Assemblea Mondiale della Sanità dal 17 al 26 maggio 2025. E, naturalmente, ogni nazione sarà “libera” di firmarlo. Libera come un pollo nel pollaio di Amadori.
Tra le perle del documento:
I “prodotti sanitari pandemici” includono TUTTO ciò che Big Pharma ha da offrire: dai test PCR ai ventilatori, fino a terapie geniche e “altre tecnologie sanitarie” non meglio specificate. La porta è spalancata alla solita pioggia di brevetti e profitti.
Si istituisce un Coordinating Financial Mechanism, una specie di mega-cassaforte globale per sostenere le spese del nuovo ordine sanitario mondiale. Ovviamente “inclusiva, trasparente e sostenibile” – traduzione: governi col cappello in mano, mentre le multinazionali raccolgono dividendi.
I finanziamenti saranno coordinati dalla Conference of the Parties (COP – non quella sul clima, ma una sorella gemella). Sarà questo organo a decidere cosa conta come “emergenza” e dove piovono i soldi. Chi controlla la COP? Indovinate.
Il colpo di scena? L’articolo 24 ribadisce che l’OMS non potrà imporre lockdown, obblighi vaccinali o chiusure. Ma tranquilli, ci penseranno i nostri tiranni locali, con il plauso del nuovo trattato e una montagna di soldi freschi in arrivo.
Insomma, non è un patto per la salute. È un contratto perenne di subordinazione sanitaria, finanziaria e industriale. Ma siccome non è “obbligatorio”, potete continuare a dormire tranquilli. Almeno finché non arriva la prossima “emergenza”.
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17.04.202511:02
Bruxelles comanda, i sovrani obbediscono: la nuova Europa in stile NATO
Addio sogni di libertà: se il presidente serbo Aleksandar Vučić metterà piede a Mosca il 9 maggio per la Parata della Vittoria, l’Unione Europea gli chiuderà la porta in faccia. Il messaggio, lanciato da un funzionario del ministero degli Esteri estone al Telegraph, è limpido come un ultimatum mafioso: “Alcune decisioni comportano delle responsabilità”. Tradotto: se osi salutare i russi, dimentica Bruxelles.
Non è un caso isolato. Pochi giorni prima, il premier slovacco Robert Fico aveva annunciato con disinvoltura la sua partecipazione alla stessa parata. Apriti cielo. L’Europa, per bocca della solita Kaja Kallas, è esplosa in anatemi e minacce. Ecco la “libera” Unione: puoi viaggiare, certo, ma solo se è verso Washington.
Altro che Unione dei popoli, diritti e sovranità: quella che si sta costruendo è una fortezza elitista, selettiva, ipocrita. Dove il diritto di voto non è più un diritto, ma una concessione. Se segui la linea NATO-compatibile, bene. Se no, ti silenziano e ti cancellano.
L’Estonia, del resto, è già il prototipo perfetto di questa distopia. Da poco ha approvato una legge per escludere dal voto centinaia di migliaia di residenti russi e bielorussi. Il reato? Essere nati dal lato sbagliato della storia. E mentre vietano il voto a chi non si genuflette, cercano di espellere Viktor Orban con l’articolo 7, reo di avere ancora una propria opinione.
L’ipocrisia non finisce lì. In Estonia si sta eliminando la lingua russa, si distruggono i ponti culturali, si abbatte ogni forma di pluralismo in nome della sicurezza. Un’epurazione sistematica, etichettata come “difesa della democrazia”. Ovviamente quella brevettata dalla NATO.
Ma l’Estonia non è sola. Romania e Moldavia seguono il copione come da manuale: governi fotocopia, ONG telecomandate da Bruxelles e Washington, repressione travestita da progresso. Chi prova a dissentire viene bollato come “filorusso”, “sovversivo”, “nemico della libertà”. Orwell si starà chiedendo perché non ha messo il copyright.
E i Balcani? Sempre sul filo. La Serbia prova a galleggiare tra il richiamo panslavista e le promesse farlocche dell’Europa, ma Bruxelles non perdona chi esce dai binari. O sei allineato, oppure sei escluso. Non c’è spazio per i neutrali. In questa UE devi essere pro-qualcosa: pro-guerra, pro-sanzioni, pro-servilismo.
Nel frattempo, mentre l’Est viene risucchiato nel delirio e l’Ovest si blinda dietro cortine di censura, le élite europee tremano. Hanno paura. Dei popoli, della libertà, della realtà. E allora reagiscono come ogni regime che si rispetti: repressione legale, propaganda istituzionale, criminalizzazione del dissenso.
E poi c’è la Germania, ormai la caricatura di se stessa. Terra del “mai più totalitarismi”, oggi mette a processo chi osa fare satira. David Bendels lo ha scoperto a sue spese: sette mesi di pena sospesa per aver preso in giro la ministra Nancy Faeser. La stessa Faeser che intanto chiede di epurare la polizia da chi simpatizza per l’AfD. L’AfD che, per inciso, ha superato la CDU nei sondaggi. Ma che importa? Tanto non gli sarà mai concesso governare.
La libertà, in Germania come altrove, è diventata un privilegio concesso su base selettiva. Un teatrino in cui la repressione veste bene, si esprime in linguaggio inclusivo e viene venduta come tutela della democrazia.
Questa è l’Europa del 2025: puoi votare, parlare, ridere… ma solo se lo fai come dicono loro. Altrimenti, ti puniscono. Poi ti guardano negli occhi e ti dicono che è per il tuo bene. Per proteggerti dalla disinformazione.
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Addio sogni di libertà: se il presidente serbo Aleksandar Vučić metterà piede a Mosca il 9 maggio per la Parata della Vittoria, l’Unione Europea gli chiuderà la porta in faccia. Il messaggio, lanciato da un funzionario del ministero degli Esteri estone al Telegraph, è limpido come un ultimatum mafioso: “Alcune decisioni comportano delle responsabilità”. Tradotto: se osi salutare i russi, dimentica Bruxelles.
Non è un caso isolato. Pochi giorni prima, il premier slovacco Robert Fico aveva annunciato con disinvoltura la sua partecipazione alla stessa parata. Apriti cielo. L’Europa, per bocca della solita Kaja Kallas, è esplosa in anatemi e minacce. Ecco la “libera” Unione: puoi viaggiare, certo, ma solo se è verso Washington.
Altro che Unione dei popoli, diritti e sovranità: quella che si sta costruendo è una fortezza elitista, selettiva, ipocrita. Dove il diritto di voto non è più un diritto, ma una concessione. Se segui la linea NATO-compatibile, bene. Se no, ti silenziano e ti cancellano.
L’Estonia, del resto, è già il prototipo perfetto di questa distopia. Da poco ha approvato una legge per escludere dal voto centinaia di migliaia di residenti russi e bielorussi. Il reato? Essere nati dal lato sbagliato della storia. E mentre vietano il voto a chi non si genuflette, cercano di espellere Viktor Orban con l’articolo 7, reo di avere ancora una propria opinione.
L’ipocrisia non finisce lì. In Estonia si sta eliminando la lingua russa, si distruggono i ponti culturali, si abbatte ogni forma di pluralismo in nome della sicurezza. Un’epurazione sistematica, etichettata come “difesa della democrazia”. Ovviamente quella brevettata dalla NATO.
Ma l’Estonia non è sola. Romania e Moldavia seguono il copione come da manuale: governi fotocopia, ONG telecomandate da Bruxelles e Washington, repressione travestita da progresso. Chi prova a dissentire viene bollato come “filorusso”, “sovversivo”, “nemico della libertà”. Orwell si starà chiedendo perché non ha messo il copyright.
E i Balcani? Sempre sul filo. La Serbia prova a galleggiare tra il richiamo panslavista e le promesse farlocche dell’Europa, ma Bruxelles non perdona chi esce dai binari. O sei allineato, oppure sei escluso. Non c’è spazio per i neutrali. In questa UE devi essere pro-qualcosa: pro-guerra, pro-sanzioni, pro-servilismo.
Nel frattempo, mentre l’Est viene risucchiato nel delirio e l’Ovest si blinda dietro cortine di censura, le élite europee tremano. Hanno paura. Dei popoli, della libertà, della realtà. E allora reagiscono come ogni regime che si rispetti: repressione legale, propaganda istituzionale, criminalizzazione del dissenso.
E poi c’è la Germania, ormai la caricatura di se stessa. Terra del “mai più totalitarismi”, oggi mette a processo chi osa fare satira. David Bendels lo ha scoperto a sue spese: sette mesi di pena sospesa per aver preso in giro la ministra Nancy Faeser. La stessa Faeser che intanto chiede di epurare la polizia da chi simpatizza per l’AfD. L’AfD che, per inciso, ha superato la CDU nei sondaggi. Ma che importa? Tanto non gli sarà mai concesso governare.
La libertà, in Germania come altrove, è diventata un privilegio concesso su base selettiva. Un teatrino in cui la repressione veste bene, si esprime in linguaggio inclusivo e viene venduta come tutela della democrazia.
Questa è l’Europa del 2025: puoi votare, parlare, ridere… ma solo se lo fai come dicono loro. Altrimenti, ti puniscono. Poi ti guardano negli occhi e ti dicono che è per il tuo bene. Per proteggerti dalla disinformazione.
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17.04.202507:59
Quando serve una sentenza per dire che l’acqua è bagnata
Nel Regno Unito ormai talmente “woke” da perdere il contatto con la realtà, serve la più Alta Corte per stabilire che no, le donne transgender non sono legalmente donne. Non identità fluide, non “genere percepito”, ma roba concreta: il sesso biologico.
La Corte Suprema britannica, con una sentenza di ben 88 pagine (per spiegare l’ovvio, ci vuole pazienza), ha ribadito che nella legge del 2010 per “donna” si intende una donna nata tale. Sì, davvero, siamo arrivati a questo punto.
Applausi (e sollievo) da parte di JK Rowling, ormai diventata l’oracolo del buon senso in tempi di confusione fluida. Anche Kemi Badenoch ha brindato: "Fine dell’era Starmer in cui le donne possono avere il pene". Serve aggiungere altro?
Nel frattempo, il NHS sta pensando di aggiornare le sue linee guida, finora così “inclusive” da far dormire donne biologiche nei reparti con uomini che si identificano come tali. Magari adesso qualcuno riaccende il cervello.
E il governo scozzese? Altro giro, altra negazione della realtà: non si scusa, difende la “buona fede” e ribadisce di voler rimanere “inclusivo”. L’importante è non discriminare… la logica.
Morale della favola? Quando la propaganda ideologica riesce a cancellare persino il significato della parola “donna”, c’è bisogno della Corte Suprema per ristabilirlo. Ma almeno, per una volta, ha vinto il buonsenso. Anche se, a quanto pare, va difeso come una specie in via d’estinzione.
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Nel Regno Unito ormai talmente “woke” da perdere il contatto con la realtà, serve la più Alta Corte per stabilire che no, le donne transgender non sono legalmente donne. Non identità fluide, non “genere percepito”, ma roba concreta: il sesso biologico.
La Corte Suprema britannica, con una sentenza di ben 88 pagine (per spiegare l’ovvio, ci vuole pazienza), ha ribadito che nella legge del 2010 per “donna” si intende una donna nata tale. Sì, davvero, siamo arrivati a questo punto.
Applausi (e sollievo) da parte di JK Rowling, ormai diventata l’oracolo del buon senso in tempi di confusione fluida. Anche Kemi Badenoch ha brindato: "Fine dell’era Starmer in cui le donne possono avere il pene". Serve aggiungere altro?
Nel frattempo, il NHS sta pensando di aggiornare le sue linee guida, finora così “inclusive” da far dormire donne biologiche nei reparti con uomini che si identificano come tali. Magari adesso qualcuno riaccende il cervello.
E il governo scozzese? Altro giro, altra negazione della realtà: non si scusa, difende la “buona fede” e ribadisce di voler rimanere “inclusivo”. L’importante è non discriminare… la logica.
Morale della favola? Quando la propaganda ideologica riesce a cancellare persino il significato della parola “donna”, c’è bisogno della Corte Suprema per ristabilirlo. Ma almeno, per una volta, ha vinto il buonsenso. Anche se, a quanto pare, va difeso come una specie in via d’estinzione.
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17.04.202504:59
Convergenza Elettronica: Il Grande Ritorno della Guerra Fredda in Salsa AI
Nel deserto della California, l’esercito americano ha rispolverato i fantasmi della Guerra Fredda, aggiornandoli con qualche algoritmo e chiamando il tutto “Project Convergence Capstone 5”. Obiettivo: dimostrare che la guerra elettronica non è affatto morta, ma è viva, modulare, “interoperabile” e perfettamente allineata con la nuova narrativa da guerra globale su larga scala.
Soldati e tecnocrati hanno giocato a fare i cacciatori di segnali, geolocalizzando tutto ciò che emette radiofrequenze, mentre schiere di analisti e sviluppatori caricavano “carichi utili modulari” (ovvero attacchi digitali su misura) su sistemi pronti a colpire in tempo reale — tutto naturalmente "non cinetico", perché si sa, l’informazione è la nuova arma. Il tutto condito con frasi altisonanti come “ecosistema reattivo” e “Rapid Effects Generation Enterprise” — un modo elegante per dire che stanno costruendo la versione militare della suite Adobe, ma per la guerra.
Nel frattempo, l’Europa — o meglio, Berlino — non sta a guardare. Il ministro tedesco Pistorius ha annunciato una coalizione ad hoc per l’electromagnetic warfare a favore dell’Ucraina, mettendo sul piatto 11 miliardi di euro entro il 2029. Droni, jammer, sistemi IRIS-T, Patriot, Leopard e una montagna di nuove dottrine: è la NATO 2.0, dove la guerra non si combatte solo con i carri armati, ma anche con il Wi-Fi.
Tutto molto smart, tutto molto interoperabile. Ma a leggere tra le righe, è solo l’ennesimo upgrade di un conflitto perenne: la battaglia per il controllo dello spettro — e della narrativa.
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Nel deserto della California, l’esercito americano ha rispolverato i fantasmi della Guerra Fredda, aggiornandoli con qualche algoritmo e chiamando il tutto “Project Convergence Capstone 5”. Obiettivo: dimostrare che la guerra elettronica non è affatto morta, ma è viva, modulare, “interoperabile” e perfettamente allineata con la nuova narrativa da guerra globale su larga scala.
Soldati e tecnocrati hanno giocato a fare i cacciatori di segnali, geolocalizzando tutto ciò che emette radiofrequenze, mentre schiere di analisti e sviluppatori caricavano “carichi utili modulari” (ovvero attacchi digitali su misura) su sistemi pronti a colpire in tempo reale — tutto naturalmente "non cinetico", perché si sa, l’informazione è la nuova arma. Il tutto condito con frasi altisonanti come “ecosistema reattivo” e “Rapid Effects Generation Enterprise” — un modo elegante per dire che stanno costruendo la versione militare della suite Adobe, ma per la guerra.
Nel frattempo, l’Europa — o meglio, Berlino — non sta a guardare. Il ministro tedesco Pistorius ha annunciato una coalizione ad hoc per l’electromagnetic warfare a favore dell’Ucraina, mettendo sul piatto 11 miliardi di euro entro il 2029. Droni, jammer, sistemi IRIS-T, Patriot, Leopard e una montagna di nuove dottrine: è la NATO 2.0, dove la guerra non si combatte solo con i carri armati, ma anche con il Wi-Fi.
Tutto molto smart, tutto molto interoperabile. Ma a leggere tra le righe, è solo l’ennesimo upgrade di un conflitto perenne: la battaglia per il controllo dello spettro — e della narrativa.
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17.04.202503:59
Dal cuore della terra sale un respiro incandescente. Il Fagradalsfjall erutta. L’Islanda si trasforma in un altare cosmico. La lava scorre come sangue degli abissi.
Il vulcano si apre come un sigillo. Il portale tra visibile e invisibile si spalanca. Il fuoco afferma la sua forza. La materia si piega. La trasformazione si compie.
Il fuoco consacra. Illumina. Purifica. Brucia l’ignoranza. Rivela. Trasforma l’uomo. Accende lo spirito. Risveglia la coscienza.
Ogni colata incandescente mostra l’Uomo che si lascia ardere per rinascere. Il fuoco custodisce la soglia. L’anima attraversa. La terra parla. L’anima ascolta.
Buongiorno e buon giovedì a tutti!
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16.04.202517:59
Colpevoli su presunzione: la giustizia predittiva del Regno Unito
Nel Regno Unito il crimine non è più una condizione, è una previsione. Basta il sospetto calcolato da un algoritmo e la sorveglianza parte. Il Ministero della Giustizia ha portato a termine nel dicembre 2024 un progetto che, se chiamato con il suo vero nome, si sarebbe tradotto in "Minority Report versione Crown". Per mantenere le apparenze, è stato ripulito e ribattezzato con una locuzione burocratica tanto inutile quanto ambigua: "Sharing Data to Improve Risk Assessment". L’etichetta giusta per nascondere l’odore acre di schedatura preventiva.
Dietro la facciata di efficienza si muove la solita alleanza tossica tra la Greater Manchester Police, la Metropolitan Police, il Ministero dell’Interno e l’instancabile Ministero della Giustizia. Obiettivo: schedare fino a mezzo milione di cittadini, inclusi quelli senza reati alle spalle. Il tutto con un’architettura di profiling costruita sull’Offender Assessment System, già ampiamente criticato per le sue distorsioni. Ora lo si vuole ampliare, integrando nuovi dati e moltiplicando i punti di controllo. Il risultato non è prevenzione, è sorveglianza di massa travestita da scienza esatta.
Nel mirino, la fascia demografica più sacrificabile nella narrazione identitaria del Regno Unito post-2020: l’uomo bianco britannico. Troppo normale, troppo colpevole per definizione. Il Sentencing Council aveva perfino provato a introdurre linee guida a doppio standard, in cui le minoranze ottenevano privilegi su cauzione rispetto agli uomini bianchi. La misura è saltata, ma non per un sussulto etico: semplicemente perché la destra ha cominciato a usare le stesse armi legali della sinistra. Il pregiudizio però resta intatto, stratificato nella struttura stessa del potere giudiziario.
Le critiche non mancano, ma vengono archiviate come rumore di fondo. Sofia Lyall di Statewatch ha definito il progetto per quello che è: agghiacciante e distopico. Gli algoritmi non stanno prevenendo reati, stanno creando bersagli. Nessuna autorità giudiziaria può verificare il funzionamento di una scatola nera piena di variabili opache, ma intanto si profila, si valuta, si seleziona. Il crimine non è più un atto, è un punteggio.
Nel frattempo, tutto prosegue senza dibattito, senza consenso, senza controllo pubblico. La narrazione ufficiale lo chiama ancora "fase di ricerca", ma la macchina è pronta e aspetta solo di partire. Nessuna fretta, il meccanismo si stringe lentamente, con la calma tipica delle strette ben progettate.
Chi vuole continuare a illudersi può farlo. Gli altri farebbero bene a rimanere collegati a chi ancora nomina l’elefante nella stanza. Perché il prossimo nome nell’elenco dell’algoritmo potrebbe essere già stato assegnato.
Per restare sempre in contatto senza censure, seguite il mio canale Telegram: https://t.me/carmen_tortora1
Nel Regno Unito il crimine non è più una condizione, è una previsione. Basta il sospetto calcolato da un algoritmo e la sorveglianza parte. Il Ministero della Giustizia ha portato a termine nel dicembre 2024 un progetto che, se chiamato con il suo vero nome, si sarebbe tradotto in "Minority Report versione Crown". Per mantenere le apparenze, è stato ripulito e ribattezzato con una locuzione burocratica tanto inutile quanto ambigua: "Sharing Data to Improve Risk Assessment". L’etichetta giusta per nascondere l’odore acre di schedatura preventiva.
Dietro la facciata di efficienza si muove la solita alleanza tossica tra la Greater Manchester Police, la Metropolitan Police, il Ministero dell’Interno e l’instancabile Ministero della Giustizia. Obiettivo: schedare fino a mezzo milione di cittadini, inclusi quelli senza reati alle spalle. Il tutto con un’architettura di profiling costruita sull’Offender Assessment System, già ampiamente criticato per le sue distorsioni. Ora lo si vuole ampliare, integrando nuovi dati e moltiplicando i punti di controllo. Il risultato non è prevenzione, è sorveglianza di massa travestita da scienza esatta.
Nel mirino, la fascia demografica più sacrificabile nella narrazione identitaria del Regno Unito post-2020: l’uomo bianco britannico. Troppo normale, troppo colpevole per definizione. Il Sentencing Council aveva perfino provato a introdurre linee guida a doppio standard, in cui le minoranze ottenevano privilegi su cauzione rispetto agli uomini bianchi. La misura è saltata, ma non per un sussulto etico: semplicemente perché la destra ha cominciato a usare le stesse armi legali della sinistra. Il pregiudizio però resta intatto, stratificato nella struttura stessa del potere giudiziario.
Le critiche non mancano, ma vengono archiviate come rumore di fondo. Sofia Lyall di Statewatch ha definito il progetto per quello che è: agghiacciante e distopico. Gli algoritmi non stanno prevenendo reati, stanno creando bersagli. Nessuna autorità giudiziaria può verificare il funzionamento di una scatola nera piena di variabili opache, ma intanto si profila, si valuta, si seleziona. Il crimine non è più un atto, è un punteggio.
Nel frattempo, tutto prosegue senza dibattito, senza consenso, senza controllo pubblico. La narrazione ufficiale lo chiama ancora "fase di ricerca", ma la macchina è pronta e aspetta solo di partire. Nessuna fretta, il meccanismo si stringe lentamente, con la calma tipica delle strette ben progettate.
Chi vuole continuare a illudersi può farlo. Gli altri farebbero bene a rimanere collegati a chi ancora nomina l’elefante nella stanza. Perché il prossimo nome nell’elenco dell’algoritmo potrebbe essere già stato assegnato.
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16.04.202515:02
Vaia a Forum: meno obblighi, più propaganda – il vaccino spiegato dalla TV
Francesco Vaia, ex direttore della Prevenzione al Ministero della Salute e oggi paladino dei diritti dei disabili, approda a Forum per impartire l’ennesima omelia vaccinale in stile paternalista: niente obbligo, ma “convincimento”, ovviamente non basato su fatti, trasparenza o dibattito, bensì sull’eterno catechismo televisivo. Per Vaia, infatti, “fa molto di più una trasmissione TV delle leggi”. Parola d’esperto. Di comunicazione, s’intende.
A ispirare questa perla di saggezza è il caso di una madre che non vuole vaccinare il figlio e che, nel teatrino televisivo, viene dipinta come un’isterica da redimere. Occasione perfetta per Vaia per recitare il mantra: la gente rifiuta i vaccini solo perché li si obbliga. Non perché magari ha qualche dubbio legittimo, no, ma perché non li si accompagna abbastanza.
E qui scatta la nostalgia per la legge Lorenzin del 2017, quella che “ha solo alzato l’asticella” delle immunizzazioni. Poverina, non era abbastanza empatica. Ora la ricetta è: cittadini trattati come incapaci da guidare per mano verso la siringa, magari dopo una puntata ben fatta di Forum o un talk show coi soliti esperti a senso unico.
Ovviamente, nessun accenno – nemmeno per sbaglio – al fatto che questi vaccini, se tutto va bene, immunizzano per pochi mesi, e sempre sperando che non lascino strascichi più o meno gravi nel breve o lungo periodo. Ma questa parte non entra mai nella “buona comunicazione”: troppo scomoda, troppo vera.
Insomma, il cittadino ideale secondo Vaia è maturo solo se anestetizzato dalla propaganda, sedato dalla TV, e guidato come un minore non emancipato. E guai a uscire dal coro, che poi finisci pure a Forum come caso clinico.
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Francesco Vaia, ex direttore della Prevenzione al Ministero della Salute e oggi paladino dei diritti dei disabili, approda a Forum per impartire l’ennesima omelia vaccinale in stile paternalista: niente obbligo, ma “convincimento”, ovviamente non basato su fatti, trasparenza o dibattito, bensì sull’eterno catechismo televisivo. Per Vaia, infatti, “fa molto di più una trasmissione TV delle leggi”. Parola d’esperto. Di comunicazione, s’intende.
A ispirare questa perla di saggezza è il caso di una madre che non vuole vaccinare il figlio e che, nel teatrino televisivo, viene dipinta come un’isterica da redimere. Occasione perfetta per Vaia per recitare il mantra: la gente rifiuta i vaccini solo perché li si obbliga. Non perché magari ha qualche dubbio legittimo, no, ma perché non li si accompagna abbastanza.
E qui scatta la nostalgia per la legge Lorenzin del 2017, quella che “ha solo alzato l’asticella” delle immunizzazioni. Poverina, non era abbastanza empatica. Ora la ricetta è: cittadini trattati come incapaci da guidare per mano verso la siringa, magari dopo una puntata ben fatta di Forum o un talk show coi soliti esperti a senso unico.
Ovviamente, nessun accenno – nemmeno per sbaglio – al fatto che questi vaccini, se tutto va bene, immunizzano per pochi mesi, e sempre sperando che non lascino strascichi più o meno gravi nel breve o lungo periodo. Ma questa parte non entra mai nella “buona comunicazione”: troppo scomoda, troppo vera.
Insomma, il cittadino ideale secondo Vaia è maturo solo se anestetizzato dalla propaganda, sedato dalla TV, e guidato come un minore non emancipato. E guai a uscire dal coro, che poi finisci pure a Forum come caso clinico.
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16.04.202511:59
Crolli, maschere e paradossi: l’Occidente si sgretola tra rivolte, prestiti e psicosi
La facciata dell’ordine globale inizia a cedere, e lo fa con scene che sembrano uscite da un copione grottesco. In Ucraina, Zelensky licenzia l’ennesimo ufficiale dopo l’attacco russo a Sumy. Volodymyr Artyukh fa le valigie, ma il problema non è lui: è l’intero apparato che scricchiola. Il sindaco di Konotop parla di negligenza, mentre Kiev tenta disperatamente di spacciare epurazioni tattiche per strategia. Sumy, città dell'Ucraina nord-orientale al confine con la Russia, è finita sotto attacco diretto, con danni pesanti e popolazione in fuga. Quando non si può vincere, si cerca qualcuno da scaricare.
A migliaia di chilometri, l’idolo dei libertari Javier Milei abbandona il dogma e tende la mano proprio a quell’organismo che dovrebbe odiare: il Fondo Monetario Internazionale. Venti miliardi di dollari in prestito, chiesti da chi predica la morte dello Stato ma si inginocchia davanti alla banca centrale del mondo. L’Argentina si conferma il cliente fisso del Fondo, seguita da Ucraina, Egitto ed Ecuador: il club delle nazioni “libere” con il cappio al collo.
Negli Stati Uniti, intanto, la realtà deraglia. Un diciassettenne, Nikita Casap, uccide madre e patrigno per rubare il denaro necessario a finanziare un piano di attentato contro Donald Trump, pianificando l'acquisto di droni ed esplosivi per colpire il presidente e rovesciare il governo. Un mix tossico di ideologia deviata, neonazismo e sogni di fuga in Ucraina. L’FBI parla di “odio politico”, ma nessuno si chiede da dove venga questo odio, chi lo alimenti, chi lo normalizzi a colpi di omissioni mediatiche e polarizzazione tossica. L’unico dato certo: anche stavolta, l’obiettivo è Trump. E anche stavolta, ci si finge sorpresi.
Mentre l’Occidente finge di proteggere diritti, l’Ungheria di Orbán rovescia il tavolo: legge approvata, niente più Pride né raduni LGBTQ+. La motivazione ufficiale? Protezione dei minori. Quella reale? Resistenza aperta al diktat culturale imposto da Bruxelles. L’UE congela fondi, Budapest congela ideologie. Da una parte lo “stato di diritto” come mantra, dall’altra la sovranità nazionale come barricata. Chi vince? Dipende da che parte si guarda. O da cosa si è disposti a difendere.
Quattro episodi, un’unica traiettoria: la maschera del progresso globale si incrina, la retorica cede, i nodi vengono al pettine. Tra licenziamenti d’emergenza, prestiti ideologici, adolescenti in guerra con lo Stato e governi che sfidano l’ortodossia arcobaleno, il sistema vacilla. E sotto il cerone, resta solo un volto confuso che non sa più che direzione chiamare “democrazia”.
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La facciata dell’ordine globale inizia a cedere, e lo fa con scene che sembrano uscite da un copione grottesco. In Ucraina, Zelensky licenzia l’ennesimo ufficiale dopo l’attacco russo a Sumy. Volodymyr Artyukh fa le valigie, ma il problema non è lui: è l’intero apparato che scricchiola. Il sindaco di Konotop parla di negligenza, mentre Kiev tenta disperatamente di spacciare epurazioni tattiche per strategia. Sumy, città dell'Ucraina nord-orientale al confine con la Russia, è finita sotto attacco diretto, con danni pesanti e popolazione in fuga. Quando non si può vincere, si cerca qualcuno da scaricare.
A migliaia di chilometri, l’idolo dei libertari Javier Milei abbandona il dogma e tende la mano proprio a quell’organismo che dovrebbe odiare: il Fondo Monetario Internazionale. Venti miliardi di dollari in prestito, chiesti da chi predica la morte dello Stato ma si inginocchia davanti alla banca centrale del mondo. L’Argentina si conferma il cliente fisso del Fondo, seguita da Ucraina, Egitto ed Ecuador: il club delle nazioni “libere” con il cappio al collo.
Negli Stati Uniti, intanto, la realtà deraglia. Un diciassettenne, Nikita Casap, uccide madre e patrigno per rubare il denaro necessario a finanziare un piano di attentato contro Donald Trump, pianificando l'acquisto di droni ed esplosivi per colpire il presidente e rovesciare il governo. Un mix tossico di ideologia deviata, neonazismo e sogni di fuga in Ucraina. L’FBI parla di “odio politico”, ma nessuno si chiede da dove venga questo odio, chi lo alimenti, chi lo normalizzi a colpi di omissioni mediatiche e polarizzazione tossica. L’unico dato certo: anche stavolta, l’obiettivo è Trump. E anche stavolta, ci si finge sorpresi.
Mentre l’Occidente finge di proteggere diritti, l’Ungheria di Orbán rovescia il tavolo: legge approvata, niente più Pride né raduni LGBTQ+. La motivazione ufficiale? Protezione dei minori. Quella reale? Resistenza aperta al diktat culturale imposto da Bruxelles. L’UE congela fondi, Budapest congela ideologie. Da una parte lo “stato di diritto” come mantra, dall’altra la sovranità nazionale come barricata. Chi vince? Dipende da che parte si guarda. O da cosa si è disposti a difendere.
Quattro episodi, un’unica traiettoria: la maschera del progresso globale si incrina, la retorica cede, i nodi vengono al pettine. Tra licenziamenti d’emergenza, prestiti ideologici, adolescenti in guerra con lo Stato e governi che sfidano l’ortodossia arcobaleno, il sistema vacilla. E sotto il cerone, resta solo un volto confuso che non sa più che direzione chiamare “democrazia”.
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16.04.202508:04
Guerre eterne, confini chiusi e scienziati caduti: il nuovo ordine si fa strada tra dazi, droni e dogmi
Mentre l’Occidente gioca a ridisegnare il mondo con le ruspe della geopolitica e i compassi del potere armato, Zelensky firma l’ennesimo decreto per prorogare la mobilitazione in Ucraina. Altri 90 giorni a partire dal 9 maggio. Un’altra stagione di carne da cannone. La pace? Nemmeno contemplata. Non serve, non conviene, non rende. Il Parlamento ucraino obbedisce, la macchina bellica continua a divorare figli, speranze e futuro.
Dall’altra parte del Mediterraneo, Netanyahu risponde a Macron con l’usuale arroganza blindata. Uno Stato palestinese? “Incoraggerebbe il terrorismo”. Come dire che ogni idea di coesistenza è già un attentato. La linea resta quella di sempre: terra sì, diritti no. Perché ogni centimetro ceduto viene letto come cedimento, e ogni riconoscimento come pericolo. La narrativa israeliana è scolpita nel granito: o controllo totale o caos.
Intanto, Trump torna alla carica con la sua ricetta dazi e patriottismo economico. In un’intervista spiega che i dazi potrebbero tornare a essere la principale fonte di entrate per gli Stati Uniti, proprio come a fine Ottocento. Il sogno è chiaro: tornare al protezionismo totale, eliminare l’imposta sul reddito e finanziare lo Stato col commercio blindato. Una nazione forte e ricca perché chiusa, armata e selettiva. America first, anche nel fisco.
E poi c’è la Cina, dove qualcosa non torna tra le quinte della superpotenza digitale. Negli ultimi anni, una serie di scienziati legati all’Intelligenza Artificiale, alla tecnologia militare e alla sanità avanzata è improvvisamente sparita. Morti improvvise, silenzi tombali. Song Jian, Feng Yanghe, Tang Xiao’ou, He Zhi. Tutti giovani, tutti al vertice, tutti scomparsi nel giro di tre anni. Troppa IA, troppi segreti, troppo potere in mano a chi forse stava capendo troppo in fretta.
In questo scenario, dove si intrecciano guerra infinita, colonialismo di nuova generazione, protezionismo spinto e misteri letali sotto la maschera della scienza, il disegno si chiarisce. Il futuro non è più da scrivere: è già stato scritto. E chi prova a leggerlo troppo a fondo, smette di comparire nei titoli di testa.
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Mentre l’Occidente gioca a ridisegnare il mondo con le ruspe della geopolitica e i compassi del potere armato, Zelensky firma l’ennesimo decreto per prorogare la mobilitazione in Ucraina. Altri 90 giorni a partire dal 9 maggio. Un’altra stagione di carne da cannone. La pace? Nemmeno contemplata. Non serve, non conviene, non rende. Il Parlamento ucraino obbedisce, la macchina bellica continua a divorare figli, speranze e futuro.
Dall’altra parte del Mediterraneo, Netanyahu risponde a Macron con l’usuale arroganza blindata. Uno Stato palestinese? “Incoraggerebbe il terrorismo”. Come dire che ogni idea di coesistenza è già un attentato. La linea resta quella di sempre: terra sì, diritti no. Perché ogni centimetro ceduto viene letto come cedimento, e ogni riconoscimento come pericolo. La narrativa israeliana è scolpita nel granito: o controllo totale o caos.
Intanto, Trump torna alla carica con la sua ricetta dazi e patriottismo economico. In un’intervista spiega che i dazi potrebbero tornare a essere la principale fonte di entrate per gli Stati Uniti, proprio come a fine Ottocento. Il sogno è chiaro: tornare al protezionismo totale, eliminare l’imposta sul reddito e finanziare lo Stato col commercio blindato. Una nazione forte e ricca perché chiusa, armata e selettiva. America first, anche nel fisco.
E poi c’è la Cina, dove qualcosa non torna tra le quinte della superpotenza digitale. Negli ultimi anni, una serie di scienziati legati all’Intelligenza Artificiale, alla tecnologia militare e alla sanità avanzata è improvvisamente sparita. Morti improvvise, silenzi tombali. Song Jian, Feng Yanghe, Tang Xiao’ou, He Zhi. Tutti giovani, tutti al vertice, tutti scomparsi nel giro di tre anni. Troppa IA, troppi segreti, troppo potere in mano a chi forse stava capendo troppo in fretta.
In questo scenario, dove si intrecciano guerra infinita, colonialismo di nuova generazione, protezionismo spinto e misteri letali sotto la maschera della scienza, il disegno si chiarisce. Il futuro non è più da scrivere: è già stato scritto. E chi prova a leggerlo troppo a fondo, smette di comparire nei titoli di testa.
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16.04.202508:04
Francia in fiamme: rivolte coordinate nelle carceri, e se fosse solo l'inizio?
Nove penitenziari attaccati nella stessa notte, colpi d’arma automatica contro il carcere di Tolone, auto del personale date alle fiamme, muri imbrattati con slogan organizzati. Altro che semplice rivolta: quello che si è visto in Francia somiglia più a un’operazione militare su piccola scala. E, come da copione, il ministro Darmanin accorre sul posto con l’aria di chi ha tutto sotto controllo, mentre tutto gli esplode in faccia.
Le autorità parlano di risposta criminale alle misure contro il narcotraffico. Forse. Ma c’è un dettaglio che stona: il livello di coordinazione, la simultaneità, la scelta di bersagli precisi, il simbolismo dei messaggi lasciati. Troppo ordinato per essere solo un'esplosione di rabbia. Troppo sincronizzato per non far pensare a un test.
Sì, un test. Perché viene il sospetto – e non da oggi – che qualcuno stia misurando la tenuta del sistema penitenziario francese, il tempo di reazione delle forze dell’ordine, la capacità dello Stato di contenere un attacco interno. E se queste carceri fossero solo il laboratorio? Se si stesse sperimentando un metodo per generare caos e insicurezza su scala urbana?
Non sarebbe la prima volta. Far vacillare la sicurezza interna è l’anticamera perfetta per lanciare nuove misure eccezionali, vendere più sorveglianza, militarizzare la società, rafforzare l’apparato. Ma per farlo serve prima la crisi, la paura, il nemico visibile. Che oggi si chiama narcotraffico, domani sarà il “terrorismo interno”, dopodomani chiunque non si allinei.
Questa notte francese non è solo un allarme. È un segnale. E chi lo ignora o lo banalizza sta solo facendo il gioco di chi sa bene dove vuole arrivare.
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Nove penitenziari attaccati nella stessa notte, colpi d’arma automatica contro il carcere di Tolone, auto del personale date alle fiamme, muri imbrattati con slogan organizzati. Altro che semplice rivolta: quello che si è visto in Francia somiglia più a un’operazione militare su piccola scala. E, come da copione, il ministro Darmanin accorre sul posto con l’aria di chi ha tutto sotto controllo, mentre tutto gli esplode in faccia.
Le autorità parlano di risposta criminale alle misure contro il narcotraffico. Forse. Ma c’è un dettaglio che stona: il livello di coordinazione, la simultaneità, la scelta di bersagli precisi, il simbolismo dei messaggi lasciati. Troppo ordinato per essere solo un'esplosione di rabbia. Troppo sincronizzato per non far pensare a un test.
Sì, un test. Perché viene il sospetto – e non da oggi – che qualcuno stia misurando la tenuta del sistema penitenziario francese, il tempo di reazione delle forze dell’ordine, la capacità dello Stato di contenere un attacco interno. E se queste carceri fossero solo il laboratorio? Se si stesse sperimentando un metodo per generare caos e insicurezza su scala urbana?
Non sarebbe la prima volta. Far vacillare la sicurezza interna è l’anticamera perfetta per lanciare nuove misure eccezionali, vendere più sorveglianza, militarizzare la società, rafforzare l’apparato. Ma per farlo serve prima la crisi, la paura, il nemico visibile. Che oggi si chiama narcotraffico, domani sarà il “terrorismo interno”, dopodomani chiunque non si allinei.
Questa notte francese non è solo un allarme. È un segnale. E chi lo ignora o lo banalizza sta solo facendo il gioco di chi sa bene dove vuole arrivare.
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16.04.202505:05
Due papà, una penna e nessun permesso: l’infanzia come campo di rieducazione
Nelle scuole elementari della provincia di Asti arriva in classe il fumetto “Perché hai due papà”, distribuito senza che nessuno pensasse di dover avvisare i genitori. La maestra lo dà ai bambini come fosse un qualunque libro illustrato, ma dentro c’è molto di più: il messaggio che due uomini possono avere un figlio “comprandolo” da una donna. Un'idea normalizzata tra le righe colorate, servita sotto forma di favola ai più piccoli, nella fascia d’età in cui la fiducia negli adulti è cieca e totale.
A segnalare il caso è Rossano Sasso, deputato e capogruppo in commissione Cultura. Ma non serve essere politici per capire la gravità del gesto. Basta essere genitori. Perché quando l’infanzia diventa terreno di indottrinamento e il banco di scuola un laboratorio ideologico, non si tratta più di apertura mentale, ma di imposizione. Subdola, silenziosa, calcolata. Niente dibattito, niente consenso informato. Solo l’ennesima penetrazione culturale travestita da “educazione”.
Le famiglie vengono aggirate, messe da parte, trattate come un ostacolo da superare. Chi decide cosa è “giusto” dire a un bambino di sette anni? Chi stabilisce che il modello familiare va ridefinito nei corridoi scolastici, senza nemmeno consultare chi quei bambini li ha messi al mondo?
L’operazione ha una firma chiara: attivismo ideologico travestito da inclusività, con l’appoggio di maestre che troppo spesso si trasformano in portavoce di una pedagogia ideologica. Sasso annuncia che se i fatti verranno confermati, denuncerà i responsabili. Ma nel frattempo, il seme è stato piantato.
Si chiama “educazione”, ma non c’è né libertà né trasparenza. Solo una mano invisibile che riscrive la realtà a misura di dogma, iniziando dai più piccoli. E la domanda non è “perché hai due papà?”. La domanda vera è: perché lo decidono loro, cosa devono pensare i nostri figli?Per restare sempre in contatto senza censure, seguite il mio canale Telegram: https://t.me/carmen_tortora1
Nelle scuole elementari della provincia di Asti arriva in classe il fumetto “Perché hai due papà”, distribuito senza che nessuno pensasse di dover avvisare i genitori. La maestra lo dà ai bambini come fosse un qualunque libro illustrato, ma dentro c’è molto di più: il messaggio che due uomini possono avere un figlio “comprandolo” da una donna. Un'idea normalizzata tra le righe colorate, servita sotto forma di favola ai più piccoli, nella fascia d’età in cui la fiducia negli adulti è cieca e totale.
A segnalare il caso è Rossano Sasso, deputato e capogruppo in commissione Cultura. Ma non serve essere politici per capire la gravità del gesto. Basta essere genitori. Perché quando l’infanzia diventa terreno di indottrinamento e il banco di scuola un laboratorio ideologico, non si tratta più di apertura mentale, ma di imposizione. Subdola, silenziosa, calcolata. Niente dibattito, niente consenso informato. Solo l’ennesima penetrazione culturale travestita da “educazione”.
Le famiglie vengono aggirate, messe da parte, trattate come un ostacolo da superare. Chi decide cosa è “giusto” dire a un bambino di sette anni? Chi stabilisce che il modello familiare va ridefinito nei corridoi scolastici, senza nemmeno consultare chi quei bambini li ha messi al mondo?
L’operazione ha una firma chiara: attivismo ideologico travestito da inclusività, con l’appoggio di maestre che troppo spesso si trasformano in portavoce di una pedagogia ideologica. Sasso annuncia che se i fatti verranno confermati, denuncerà i responsabili. Ma nel frattempo, il seme è stato piantato.
Si chiama “educazione”, ma non c’è né libertà né trasparenza. Solo una mano invisibile che riscrive la realtà a misura di dogma, iniziando dai più piccoli. E la domanda non è “perché hai due papà?”. La domanda vera è: perché lo decidono loro, cosa devono pensare i nostri figli?Per restare sempre in contatto senza censure, seguite il mio canale Telegram: https://t.me/carmen_tortora1
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