
Carmen Tortora
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असत्यापितविश्वसनीयता
अविश्वसनीयस्थान
भाषाअन्य
चैनल निर्माण की तिथिAug 25, 2023
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Oct 25, 2024संलग्न समूह
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समूह "Carmen Tortora" में नवीनतम पोस्ट
17.05.202517:58
Bruxelles: pioggia di bandiere al Palazzo UE – arcobaleno, clima e QR-code
Il 17 maggio 2025, la Commissione Europea ha issato la bandiera LGBTQIA+ accanto a quella dell’Unione per celebrare il Pride. Gesto simbolico, arcobalenico e molto, molto fotografabile. Ma a Bruxelles si sono fatti prendere la mano: accanto ai vessilli ufficiali, mancavano solo la bandiera delle 15-minuti cities, quella dell’Agenda 2030 (in tessuto riciclato), la CO₂-neutral flag, il vessillo “Digital ID Verified”, lo stendardo “Vaccinati e Obbedienti” e, perché no, una bella bandiera Frontex con logo arcobaleno e droni stilizzati.
Messaggio ricevuto: l’inclusività è per tutti — tranne per chi non ha un green pass spirituale e un comportamento algoritmicamente corretto. Bruxelles è la Disneyland della compliance: più bandiere sventolano, più controlli si attivano.
E mentre il cielo si riempie di simboli, i cittadini restano giù, tra bollette ESG, restrizioni resilienti e libertà regolamentate. Ma tranquilli: siamo tutti rappresentati. Almeno su tela.
Per restare sempre in contatto senza censure, seguite il mio canale Telegram: https://t.me/carmen_tortora1
Il 17 maggio 2025, la Commissione Europea ha issato la bandiera LGBTQIA+ accanto a quella dell’Unione per celebrare il Pride. Gesto simbolico, arcobalenico e molto, molto fotografabile. Ma a Bruxelles si sono fatti prendere la mano: accanto ai vessilli ufficiali, mancavano solo la bandiera delle 15-minuti cities, quella dell’Agenda 2030 (in tessuto riciclato), la CO₂-neutral flag, il vessillo “Digital ID Verified”, lo stendardo “Vaccinati e Obbedienti” e, perché no, una bella bandiera Frontex con logo arcobaleno e droni stilizzati.
Messaggio ricevuto: l’inclusività è per tutti — tranne per chi non ha un green pass spirituale e un comportamento algoritmicamente corretto. Bruxelles è la Disneyland della compliance: più bandiere sventolano, più controlli si attivano.
E mentre il cielo si riempie di simboli, i cittadini restano giù, tra bollette ESG, restrizioni resilienti e libertà regolamentate. Ma tranquilli: siamo tutti rappresentati. Almeno su tela.
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17.05.202514:59
Tracciamento illegale? L’UE scopre l’acqua calda. Ma chi traccia davvero chi?
Ogni tanto arriva una buona notizia anche dall’Unione Europea — o almeno, così sembra. La Corte d’appello del Belgio ha stabilito che il tracciamento degli utenti per scopi pubblicitari viola il GDPR. Nello specifico, ha dichiarato illegale il famigerato Transparency and Consent Framework (TCF), quel sistema che si nasconde dietro ai pop-up sui cookie e che ci obbliga a “dare il consenso” prima ancora di leggere un articolo. La verità? Quel consenso non è mai stato libero, né trasparente.
Secondo i giudici, il sistema alimenta una forma di sorveglianza predittiva che calpesta i diritti fondamentali dei cittadini europei. Una bella frase, suona bene. Ma mentre Bruxelles finge di proteggerci dai cookie pubblicitari, è la stessa Unione a spingerci dentro un mondo sempre più digitalizzato, schedato e ipercontrollato. Passaporti sanitari, identità digitali, sistemi biometrici, geolocalizzazione: il tracciamento non lo fanno solo le Big Tech — lo fa anche l’apparato che ora si presenta come paladino della privacy.
La IAB Europe, che rappresenta il settore pubblicitario, era stata multata nel 2022 per 250.000 euro. Il 14 maggio 2025 ha perso anche il ricorso. Bene. Ma questa vittoria rischia di essere solo simbolica se non si affronta l’ipocrisia di fondo: da una parte si condanna la profilazione privata, dall’altra si costruisce un’infrastruttura pubblica che rende ogni cittadino un punto dati da monitorare.
Insomma, va bene spegnere qualche tracker pubblicitario. Ma ci piacerebbe — tanto — che l’Unione Europea mostrasse la stessa solerzia nel difenderci da sé stessa, dalle sue agende digitali, dalle sue piattaforme di sorveglianza mascherate da “innovazione”. Perché il vero Grande Fratello, a questo punto, non è più solo una multinazionale americana. Ha anche una bandiera blu con dodici stelle.
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Ogni tanto arriva una buona notizia anche dall’Unione Europea — o almeno, così sembra. La Corte d’appello del Belgio ha stabilito che il tracciamento degli utenti per scopi pubblicitari viola il GDPR. Nello specifico, ha dichiarato illegale il famigerato Transparency and Consent Framework (TCF), quel sistema che si nasconde dietro ai pop-up sui cookie e che ci obbliga a “dare il consenso” prima ancora di leggere un articolo. La verità? Quel consenso non è mai stato libero, né trasparente.
Secondo i giudici, il sistema alimenta una forma di sorveglianza predittiva che calpesta i diritti fondamentali dei cittadini europei. Una bella frase, suona bene. Ma mentre Bruxelles finge di proteggerci dai cookie pubblicitari, è la stessa Unione a spingerci dentro un mondo sempre più digitalizzato, schedato e ipercontrollato. Passaporti sanitari, identità digitali, sistemi biometrici, geolocalizzazione: il tracciamento non lo fanno solo le Big Tech — lo fa anche l’apparato che ora si presenta come paladino della privacy.
La IAB Europe, che rappresenta il settore pubblicitario, era stata multata nel 2022 per 250.000 euro. Il 14 maggio 2025 ha perso anche il ricorso. Bene. Ma questa vittoria rischia di essere solo simbolica se non si affronta l’ipocrisia di fondo: da una parte si condanna la profilazione privata, dall’altra si costruisce un’infrastruttura pubblica che rende ogni cittadino un punto dati da monitorare.
Insomma, va bene spegnere qualche tracker pubblicitario. Ma ci piacerebbe — tanto — che l’Unione Europea mostrasse la stessa solerzia nel difenderci da sé stessa, dalle sue agende digitali, dalle sue piattaforme di sorveglianza mascherate da “innovazione”. Perché il vero Grande Fratello, a questo punto, non è più solo una multinazionale americana. Ha anche una bandiera blu con dodici stelle.
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17.05.202510:59
Il nuovo Accordo Pandemico dell’OMS: burocrazia globale, sorveglianza permanente e 'equità' a senso unico
Dopo tre anni di negoziati e una maratona diplomatica durata fino all’aprile 2025, i delegati dell’Organismo intergovernativo di negoziazione (INB) hanno finalmente partorito un testo: il nuovo Accordo sulla pandemia, pronto per essere votato alla 78ª Assemblea Mondiale della Sanità a fine maggio. Un trattato pieno di clausole vaghe, promesse simboliche e sorveglianza potenziata, che apre la strada a una nuova era di controllo biomedico globale.
Il testo prevede che i produttori farmaceutici “partecipanti” riservino all’OMS il 20% della produzione sanitaria pandemica, metà in donazione e metà a “prezzi accessibili”. Una nuova struttura finanziaria, il Meccanismo Finanziario di Coordinamento (CFM), sarà creata per finanziare questo e il nuovo livello massimo di allerta, l’“Emergenza Pandemica”, che potrà essere dichiarata dal Direttore Generale dell’OMS a partire da settembre 2025.
Un trattato simbolico, ma ad alto impatto geopolitico
Nonostante le defezioni di USA e Argentina, il testo ha cercato di equilibrare posizioni inconciliabili tra Nord e Sud globale. In particolare, molti paesi africani hanno denunciato l’Accordo come un’altra ingiustizia imposta da chi, durante il Covid, ha accumulato vaccini e lasciato l’Africa a mani vuote (beati loro). L’obiettivo dichiarato è l’“equità”, ma resta un concetto più sbandierato che realizzato: l’unico risultato è la formalizzazione della dipendenza dei paesi poveri dalle donazioni dei ricchi.
Il documento richiede inoltre maggiore “trasparenza contrattuale”, ma con clausole fumose che difficilmente avrebbero impedito a Ursula von der Leyen di negoziare vaccini con Pfizer via SMS. I richiami alla “produzione locale” e al trasferimento tecnologico restano subordinati a clausole TRIPS e volontà industriale occidentale.
Una macchina globale per la sorveglianza e la risposta biomedica
Il cuore dell’Accordo è il rafforzamento della sorveglianza e del paradigma “One Health”: controllo integrato su ambiente, animali, esseri umani. Il costo previsto? Oltre 40 miliardi di dollari l’anno. Con la creazione di nuovi hub, come il Pandemic Hub di Berlino e il centro mRNA dell’OMS a Città del Capo, l’industria pandemica è ormai consolidata. Il rischio? Un’escalation di diagnosi iperprotette e “scoperte” virologiche che giustificano allarmi permanenti.
Infodemia e propaganda: chi decide cos’è vero?
L’Accordo non impone lockdown o obblighi vaccinali, ma ribadisce l’importanza del “controllo dell’infodemia”. Tradotto: sorveglianza dell’informazione, soprattutto digitale. L’esperienza del Covid, tra messaggi di panico pianificati (vedi Hancock e la “variante della paura”), mostra quanto la comunicazione sia ormai un’arma politica. L’articolo 24.2 esclude formalmente che l’OMS possa imporre obblighi legali agli Stati, ma la struttura narrativa e finanziaria del trattato punta chiaramente a orientare – e premiare – i più obbedienti.
Un accordo che “rinvia” il problema
Molti punti controversi – come proprietà intellettuale, licenze obbligatorie e accesso ai prodotti – sono stati semplicemente rimandati alla futura Conferenza delle Parti (COP). L’Accordo è quindi un contenitore flessibile, pronto a evolvere in base alle pressioni politiche e finanziarie, non a regole chiare.
Conclusione: la pandemia come leva di governance globale
Come il cambiamento climatico e la proliferazione nucleare, anche il rischio pandemico viene usato come “minaccia esistenziale” per giustificare un’agenda permanente: investimenti, sorveglianza, controllo. Il vero effetto dell’Accordo non sarà tanto giuridico quanto narrativo. E finché la paura sarà utile, la macchina pandemica resterà accesa.
Il voto alla 78ª AMS non sarà la fine, ma l’inizio della normalizzazione di una burocrazia pandemica globale, alimentata da fondi pubblici, emergenze cicliche e tecnologie bio-sorveglianti. Il mondo post-Covid ha trovato il suo nuovo ordine: il protocollo d’allarme permanente. https://t.me/carmen_tortora1
Dopo tre anni di negoziati e una maratona diplomatica durata fino all’aprile 2025, i delegati dell’Organismo intergovernativo di negoziazione (INB) hanno finalmente partorito un testo: il nuovo Accordo sulla pandemia, pronto per essere votato alla 78ª Assemblea Mondiale della Sanità a fine maggio. Un trattato pieno di clausole vaghe, promesse simboliche e sorveglianza potenziata, che apre la strada a una nuova era di controllo biomedico globale.
Il testo prevede che i produttori farmaceutici “partecipanti” riservino all’OMS il 20% della produzione sanitaria pandemica, metà in donazione e metà a “prezzi accessibili”. Una nuova struttura finanziaria, il Meccanismo Finanziario di Coordinamento (CFM), sarà creata per finanziare questo e il nuovo livello massimo di allerta, l’“Emergenza Pandemica”, che potrà essere dichiarata dal Direttore Generale dell’OMS a partire da settembre 2025.
Un trattato simbolico, ma ad alto impatto geopolitico
Nonostante le defezioni di USA e Argentina, il testo ha cercato di equilibrare posizioni inconciliabili tra Nord e Sud globale. In particolare, molti paesi africani hanno denunciato l’Accordo come un’altra ingiustizia imposta da chi, durante il Covid, ha accumulato vaccini e lasciato l’Africa a mani vuote (beati loro). L’obiettivo dichiarato è l’“equità”, ma resta un concetto più sbandierato che realizzato: l’unico risultato è la formalizzazione della dipendenza dei paesi poveri dalle donazioni dei ricchi.
Il documento richiede inoltre maggiore “trasparenza contrattuale”, ma con clausole fumose che difficilmente avrebbero impedito a Ursula von der Leyen di negoziare vaccini con Pfizer via SMS. I richiami alla “produzione locale” e al trasferimento tecnologico restano subordinati a clausole TRIPS e volontà industriale occidentale.
Una macchina globale per la sorveglianza e la risposta biomedica
Il cuore dell’Accordo è il rafforzamento della sorveglianza e del paradigma “One Health”: controllo integrato su ambiente, animali, esseri umani. Il costo previsto? Oltre 40 miliardi di dollari l’anno. Con la creazione di nuovi hub, come il Pandemic Hub di Berlino e il centro mRNA dell’OMS a Città del Capo, l’industria pandemica è ormai consolidata. Il rischio? Un’escalation di diagnosi iperprotette e “scoperte” virologiche che giustificano allarmi permanenti.
Infodemia e propaganda: chi decide cos’è vero?
L’Accordo non impone lockdown o obblighi vaccinali, ma ribadisce l’importanza del “controllo dell’infodemia”. Tradotto: sorveglianza dell’informazione, soprattutto digitale. L’esperienza del Covid, tra messaggi di panico pianificati (vedi Hancock e la “variante della paura”), mostra quanto la comunicazione sia ormai un’arma politica. L’articolo 24.2 esclude formalmente che l’OMS possa imporre obblighi legali agli Stati, ma la struttura narrativa e finanziaria del trattato punta chiaramente a orientare – e premiare – i più obbedienti.
Un accordo che “rinvia” il problema
Molti punti controversi – come proprietà intellettuale, licenze obbligatorie e accesso ai prodotti – sono stati semplicemente rimandati alla futura Conferenza delle Parti (COP). L’Accordo è quindi un contenitore flessibile, pronto a evolvere in base alle pressioni politiche e finanziarie, non a regole chiare.
Conclusione: la pandemia come leva di governance globale
Come il cambiamento climatico e la proliferazione nucleare, anche il rischio pandemico viene usato come “minaccia esistenziale” per giustificare un’agenda permanente: investimenti, sorveglianza, controllo. Il vero effetto dell’Accordo non sarà tanto giuridico quanto narrativo. E finché la paura sarà utile, la macchina pandemica resterà accesa.
Il voto alla 78ª AMS non sarà la fine, ma l’inizio della normalizzazione di una burocrazia pandemica globale, alimentata da fondi pubblici, emergenze cicliche e tecnologie bio-sorveglianti. Il mondo post-Covid ha trovato il suo nuovo ordine: il protocollo d’allarme permanente. https://t.me/carmen_tortora1
17.05.202507:59
Middle East Reloaded: regionalizzazione e friend-shoring per l’ordine tecnocratico USA-centrico
Il recente tour mediorientale di Donald Trump non è solo diplomazia spettacolare, ma l’attuazione concreta di una strategia economico-politica su scala globale: regionalizzare le catene del valore e consolidare il friend-shoring come pilastro di un nuovo ordine tecnocratico, centrato sugli interessi americani.
Nel contesto della frammentazione geopolitica, Stati Uniti e alleati stanno trasformando il Medio Oriente in un distretto strategico: una piattaforma regionale per filiere produttive, logistiche ed energetiche integrate. Secondo il World Economic Forum (WEF) e il Fondo Monetario Internazionale (IMF), la regionalizzazione rappresenta oggi una risposta “razionale” al fallimento della globalizzazione classica: supply chain più corte, selettive, geograficamente localizzate e ideologicamente allineate.
Il friend-shoring, teorizzato da Janet Yellen e promosso in sede FMI, OCSE e WEF, rientra in questa strategia di “de-risking”: spostare la produzione in Paesi amici, riducendo la dipendenza da "potenze ostili" come la Cina. Come sottolineato nel panel “Regionalization, Re-Globalization, and Supply Chain Transformation” del Milken Institute, la globalizzazione non è finita, ma si sta ri-cablando in blocchi regionali interoperabili, con regole comuni su sicurezza, dati e investimenti.
In questo scenario si inserisce la questione chiave della tenuta del dollaro come valuta globale. Secondo Jim Rickards, ex funzionario del Tesoro USA coinvolto nella creazione del sistema petrodollaro nel 1974, il tour di Trump mira a stabilire un nuovo accordo energetico con i sauditi – un “Petrodollar 2.0” – per contenere l’ascesa dello yuan e rafforzare l’egemonia del dollaro.
Rickards racconta come, all’epoca, l’accordo con l’Arabia Saudita fu costruito su un equilibrio tra minaccia (invasione in caso di rifiuto) e premio (protezione militare in cambio di vendite in dollari). Oggi, con i sauditi che iniziano a commerciare in yuan, le crepe nel sistema sono evidenti. La risposta di Trump? Niente minacce: solo carote. Investimenti, garanzie e piena integrazione tecnologica nella rete USA per non perdere Riyadh a favore di Pechino.
Gli accordi firmati:
Qatar – 1,2 trilioni $
Difesa, aviazione, logistica, cybersecurity
Arabia Saudita – 1.042 miliardi $
Energia, armamenti, smart cities, infrastrutture
Siria – (nessuna cifra ufficiale)
Reinserimento economico tramite petrolio e gas
Emirati Arabi Uniti – 1,6 trilioni $
AI, blockchain, logistica energetica, investimenti diretti negli USA
Conclusione: Il tour di Trump non è solo una serie di accordi, ma l’attivazione di un sistema a blocchi, dove il Medio Oriente diventa laboratorio offshore del friend-shoring occidentale. Un’area dove conta la compatibilità, non la sovranità. E mentre il sistema del petrodollaro mostra segni di erosione, Washington tenta un rilancio: con un volto più gentile, ma la stessa logica imperiale.
Per restare sempre in contatto senza censure, seguite il mio canale Telegram: https://t.me/carmen_tortora1
Il recente tour mediorientale di Donald Trump non è solo diplomazia spettacolare, ma l’attuazione concreta di una strategia economico-politica su scala globale: regionalizzare le catene del valore e consolidare il friend-shoring come pilastro di un nuovo ordine tecnocratico, centrato sugli interessi americani.
Nel contesto della frammentazione geopolitica, Stati Uniti e alleati stanno trasformando il Medio Oriente in un distretto strategico: una piattaforma regionale per filiere produttive, logistiche ed energetiche integrate. Secondo il World Economic Forum (WEF) e il Fondo Monetario Internazionale (IMF), la regionalizzazione rappresenta oggi una risposta “razionale” al fallimento della globalizzazione classica: supply chain più corte, selettive, geograficamente localizzate e ideologicamente allineate.
Il friend-shoring, teorizzato da Janet Yellen e promosso in sede FMI, OCSE e WEF, rientra in questa strategia di “de-risking”: spostare la produzione in Paesi amici, riducendo la dipendenza da "potenze ostili" come la Cina. Come sottolineato nel panel “Regionalization, Re-Globalization, and Supply Chain Transformation” del Milken Institute, la globalizzazione non è finita, ma si sta ri-cablando in blocchi regionali interoperabili, con regole comuni su sicurezza, dati e investimenti.
In questo scenario si inserisce la questione chiave della tenuta del dollaro come valuta globale. Secondo Jim Rickards, ex funzionario del Tesoro USA coinvolto nella creazione del sistema petrodollaro nel 1974, il tour di Trump mira a stabilire un nuovo accordo energetico con i sauditi – un “Petrodollar 2.0” – per contenere l’ascesa dello yuan e rafforzare l’egemonia del dollaro.
Rickards racconta come, all’epoca, l’accordo con l’Arabia Saudita fu costruito su un equilibrio tra minaccia (invasione in caso di rifiuto) e premio (protezione militare in cambio di vendite in dollari). Oggi, con i sauditi che iniziano a commerciare in yuan, le crepe nel sistema sono evidenti. La risposta di Trump? Niente minacce: solo carote. Investimenti, garanzie e piena integrazione tecnologica nella rete USA per non perdere Riyadh a favore di Pechino.
Gli accordi firmati:
Qatar – 1,2 trilioni $
Difesa, aviazione, logistica, cybersecurity
Arabia Saudita – 1.042 miliardi $
Energia, armamenti, smart cities, infrastrutture
Siria – (nessuna cifra ufficiale)
Reinserimento economico tramite petrolio e gas
Emirati Arabi Uniti – 1,6 trilioni $
AI, blockchain, logistica energetica, investimenti diretti negli USA
Conclusione: Il tour di Trump non è solo una serie di accordi, ma l’attivazione di un sistema a blocchi, dove il Medio Oriente diventa laboratorio offshore del friend-shoring occidentale. Un’area dove conta la compatibilità, non la sovranità. E mentre il sistema del petrodollaro mostra segni di erosione, Washington tenta un rilancio: con un volto più gentile, ma la stessa logica imperiale.
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17.05.202504:59
Crisi del vento in Germania: l’eolico crolla, l’Europa rispolvera il nucleare
Il 2025 si sta rivelando un annus horribilis per l’industria eolica tedesca. Nei primi tre mesi dell’anno, la Germania ha registrato la velocità del vento più bassa dal 1973, con una media sotto i 5,5 m/s. Il risultato è stato un crollo del 31% nella produzione di energia eolica rispetto al primo trimestre del 2024, con perdite milionarie per le aziende del settore: PNE, ad esempio, è passata da un utile operativo a una perdita secca di 7,1 milioni di euro.
La carenza di vento, combinata alla scarsa resa del solare nei mesi invernali, ha costretto il governo a riattivare le centrali a gas e ad aumentare l’importazione di energia, spesso nucleare, dai paesi vicini. Come se non bastasse, alcuni studi suggeriscono che l’eccessiva espansione dell’eolico potrebbe aver contribuito essa stessa alla riduzione dei venti, aggravando siccità e ondate di calore.
Nel frattempo, il modello delle rinnovabili mostra crepe sempre più evidenti. La Danimarca, storicamente anti-nucleare, ha avviato uno studio ufficiale sul potenziale dei nuovi piccoli reattori modulari (SMR), ovvero impianti nucleari compatti di ultima generazione progettati per essere più sicuri, scalabili e meno costosi rispetto alle centrali tradizionali, pur senza abbandonare formalmente il proprio orientamento “verde”. Anche l’Italia, dopo decenni di tabù post-Chernobyl, si prepara a reinserire il nucleare nel proprio mix energetico con l’intenzione di utilizzare gli SMR come leva per la decarbonizzazione industriale. Tuttavia, non mancano le critiche: secondo diversi studi, gli SMR potrebbero produrre più rifiuti radioattivi per unità di energia rispetto ai reattori tradizionali, risultano ancora troppo costosi e lenti da realizzare.
La narrazione green dell’Europa inizia a fare i conti con la realtà fisica del clima e della rete elettrica: quando il vento si ferma, le illusioni ideologiche si infrangono.
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Il 2025 si sta rivelando un annus horribilis per l’industria eolica tedesca. Nei primi tre mesi dell’anno, la Germania ha registrato la velocità del vento più bassa dal 1973, con una media sotto i 5,5 m/s. Il risultato è stato un crollo del 31% nella produzione di energia eolica rispetto al primo trimestre del 2024, con perdite milionarie per le aziende del settore: PNE, ad esempio, è passata da un utile operativo a una perdita secca di 7,1 milioni di euro.
La carenza di vento, combinata alla scarsa resa del solare nei mesi invernali, ha costretto il governo a riattivare le centrali a gas e ad aumentare l’importazione di energia, spesso nucleare, dai paesi vicini. Come se non bastasse, alcuni studi suggeriscono che l’eccessiva espansione dell’eolico potrebbe aver contribuito essa stessa alla riduzione dei venti, aggravando siccità e ondate di calore.
Nel frattempo, il modello delle rinnovabili mostra crepe sempre più evidenti. La Danimarca, storicamente anti-nucleare, ha avviato uno studio ufficiale sul potenziale dei nuovi piccoli reattori modulari (SMR), ovvero impianti nucleari compatti di ultima generazione progettati per essere più sicuri, scalabili e meno costosi rispetto alle centrali tradizionali, pur senza abbandonare formalmente il proprio orientamento “verde”. Anche l’Italia, dopo decenni di tabù post-Chernobyl, si prepara a reinserire il nucleare nel proprio mix energetico con l’intenzione di utilizzare gli SMR come leva per la decarbonizzazione industriale. Tuttavia, non mancano le critiche: secondo diversi studi, gli SMR potrebbero produrre più rifiuti radioattivi per unità di energia rispetto ai reattori tradizionali, risultano ancora troppo costosi e lenti da realizzare.
La narrazione green dell’Europa inizia a fare i conti con la realtà fisica del clima e della rete elettrica: quando il vento si ferma, le illusioni ideologiche si infrangono.
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17.05.202503:59
Il Monte Seceda, maestoso bastione roccioso delle Dolomiti italiane, si erge a oltre 2.500 metri nel cuore dell’Alto Adige, dominando la Val Gardena e la Val di Funes. Un tempo conteso confine culturale tra mondo latino e mondo germanico, ha segnato per secoli la linea invisibile tra l’Impero Austriaco e l’Italia. Le sue guglie calcaree, scolpite da ere geologiche e glaciazioni, non solo offrono panorami mozzafiato, ma conservano i segni di un passato segnato da pastori ladini, guerre di frontiera e una convivenza forzata tra identità linguistiche. Oggi è simbolo di armonia tra natura e cultura, parte del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.
Buongiorno e buon sabato a tutti!
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16.05.202517:59
Mentre si compra un carro armato al giorno, gli ospedali cadono a pezzi
Mentre a Bruxelles e a Berlino si moltiplicano i fondi per missili, droni e fanfare NATO, in Italia l’Aula di Montecitorio si trasforma in un teatrino tragicomico. Giorgia Meloni e Elly Schlein si azzuffano a colpi di dichiarazioni durante il premier time. Tema? La sanità pubblica, o meglio ciò che ne resta.
Schlein grida che “curarsi è diventato un lusso”. E ha pure ragione: le liste d’attesa sono infinite, e chi non ha soldi per il privato rischia la pelle aspettando mesi per una risonanza. Intanto gli ospedali pubblici arrancano, svuotati da anni di tagli bipartisan e dalla fuga di medici e infermieri verso stipendi decenti o semplicemente verso l’estero.
Meloni risponde che è colpa delle Regioni (già, lo scaricabarile è lo sport nazionale), ma promette un decreto magico per “attivare poteri sostitutivi”. Tradotto: centralismo d’emergenza e nessuna soluzione concreta.
Si parla anche dei famigerati gettonisti, i medici a chiamata pagati a peso d’oro per tappare i buchi di organico. Il governo avrebbe “messo un freno” con il decreto 34/2023, ma la realtà è che gli ospedali preferiscono pagare 1.000 euro a turno un gettonista piuttosto che assumere stabilmente. Il sistema è malato e alimenta se stesso.
Schlein elenca i numeri del disastro: mancano 65.000 infermieri e 30.000 medici. Gimbe lancia l’allarme: sempre più italiani rinunciano a curarsi perché non possono permetterselo. Intanto, al Sud, si emigra per fare una TAC. Al Nord, si aspetta o si paga.
Meloni si difende con le cifre: “abbiamo stanziato il record storico nel Fondo sanitario nazionale”. Peccato che non dica che in percentuale sul PIL stiamo ancora sotto i livelli europei. Ma si sa: le cifre assolute fanno scena, anche se non servono a nulla quando il pronto soccorso ti manda a casa con la febbre alta e un ibuprofene.
Conclusione? Tutti colpevoli. Tutti complici. E mentre il popolo arranca tra liste d’attesa, ambulanze introvabili e ospedali deserti, il Parlamento si scanna per i voti e il governo fa propaganda con i bilanci. L’unica cosa che cresce davvero è la spesa militare. Per curarci? Ci resta solo il Santo Rosario.
Per restare sempre in contatto senza censure, seguite il mio canale Telegram: https://t.me/carmen_tortora1
Mentre a Bruxelles e a Berlino si moltiplicano i fondi per missili, droni e fanfare NATO, in Italia l’Aula di Montecitorio si trasforma in un teatrino tragicomico. Giorgia Meloni e Elly Schlein si azzuffano a colpi di dichiarazioni durante il premier time. Tema? La sanità pubblica, o meglio ciò che ne resta.
Schlein grida che “curarsi è diventato un lusso”. E ha pure ragione: le liste d’attesa sono infinite, e chi non ha soldi per il privato rischia la pelle aspettando mesi per una risonanza. Intanto gli ospedali pubblici arrancano, svuotati da anni di tagli bipartisan e dalla fuga di medici e infermieri verso stipendi decenti o semplicemente verso l’estero.
Meloni risponde che è colpa delle Regioni (già, lo scaricabarile è lo sport nazionale), ma promette un decreto magico per “attivare poteri sostitutivi”. Tradotto: centralismo d’emergenza e nessuna soluzione concreta.
Si parla anche dei famigerati gettonisti, i medici a chiamata pagati a peso d’oro per tappare i buchi di organico. Il governo avrebbe “messo un freno” con il decreto 34/2023, ma la realtà è che gli ospedali preferiscono pagare 1.000 euro a turno un gettonista piuttosto che assumere stabilmente. Il sistema è malato e alimenta se stesso.
Schlein elenca i numeri del disastro: mancano 65.000 infermieri e 30.000 medici. Gimbe lancia l’allarme: sempre più italiani rinunciano a curarsi perché non possono permetterselo. Intanto, al Sud, si emigra per fare una TAC. Al Nord, si aspetta o si paga.
Meloni si difende con le cifre: “abbiamo stanziato il record storico nel Fondo sanitario nazionale”. Peccato che non dica che in percentuale sul PIL stiamo ancora sotto i livelli europei. Ma si sa: le cifre assolute fanno scena, anche se non servono a nulla quando il pronto soccorso ti manda a casa con la febbre alta e un ibuprofene.
Conclusione? Tutti colpevoli. Tutti complici. E mentre il popolo arranca tra liste d’attesa, ambulanze introvabili e ospedali deserti, il Parlamento si scanna per i voti e il governo fa propaganda con i bilanci. L’unica cosa che cresce davvero è la spesa militare. Per curarci? Ci resta solo il Santo Rosario.
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16.05.202514:59
Blackout & Bandiera: dalla Spagna a Londra, il puzzle energetico si chiama “Alchemy”
Londra si prepara a mesi di blackout, ma non per colpa di Putin o di qualche tempesta solare. No, stavolta il nemico è interno: è la transizione verde. Lo ha ammesso persino The Telegraph l’11 maggio 2025: il passaggio accelerato dal gas — una fonte stabile — alle rinnovabili — intermittenti e non programmabili — sta compromettendo la tenuta dell’intera rete elettrica britannica. Il blackout improvviso che ha paralizzato la metropolitana di Londra ne è stato il primo segnale concreto: migliaia di persone bloccate sottoterra, luci spente, caos. Non si è trattato di un incidente isolato, ma di un campanello d’allarme su ciò che potrebbe diventare la “nuova normalità”. Il gestore nazionale lancia l’allarme. E il sospetto ormai è lecito: che questo “rischio sistemico” non sia un effetto collaterale, ma parte integrante del piano Net Zero. Una destabilizzazione energetica pianificata, venduta come progresso.
Non è la prima anomalia che si registra. Già nel novembre 2024, Alex Krainer aveva attirato l’attenzione su un fatto inquietante: le webcam pubbliche di Londra si erano spente simultaneamente il 2 settembre alle 16:51, l’ultima immagine utile da Westminster Bridge. Un blackout digitale perfetto, senza spiegazioni ufficiali. Secondo Krainer, quel blackout era il preludio a un’operazione sotto falsa bandiera, funzionale a costruire un pretesto per una futura escalation contro la Russia.
Qualche mese dopo, il 28 aprile 2025, un blackout colpisce Spagna, Portogallo e parte del sud della Francia. Le versioni ufficiali parlano di “problemi tecnici”, ma Red Eléctrica ha rilevato l’improvvisa scomparsa di 10 GW di produzione solare dai flussi monitorati, come se una parte della rete fosse stata silenziata artificialmente. L’ipotesi di un attacco cibernetico viene ventilata e persino le autorità spagnole aprono un’indagine per possibile sabotaggio.
Ed è qui che tutto si collega: proprio tra aprile e giugno 2024, l’Unione Europea, attraverso ENISA, conduceva l’esercitazione Cyber Europe 2024. Obiettivo: simulare attacchi informatici su larga scala contro infrastrutture energetiche, reti elettriche e smart grid. Lo scenario proposto? Una crisi energetica derivante da tensioni geopolitiche e blackout a cascata. La coincidenza temporale con gli eventi reali è troppo netta per essere ignorata.
Come se non bastasse, The Grayzone ha pubblicato nello stesso periodo documenti esplosivi su un’operazione segreta del Ministero della Difesa britannico: il Progetto Alchemy. Un'unità clandestina incaricata di condurre operazioni psicologiche e strategiche legate alla guerra in Ucraina. Alchemy non è teoria del complotto: è realtà documentata. Lavora sul terreno della destabilizzazione, della disinformazione e delle crisi simulate, con obiettivi politici ben precisi.
In apparenza scollegati, questi eventi — blackout reali, simulazioni istituzionali e operazioni militari coperte — sembrano in realtà pezzi dello stesso disegno. Una strategia convergente che punta alla trasformazione dell’ordine energetico, alla militarizzazione delle crisi e al controllo narrativo dell’emergenza.
Quando ci spegneranno la luce, ci racconteranno che è colpa del sole, del vento, della rete sovraccarica o di qualche hacker russo. Ma ormai è chiaro: la realtà sarà stata scritta in anticipo, su uno schermo spento.
Per restare sempre in contatto senza censure, seguite il mio canale Telegram: https://t.me/carmen_tortora1
Londra si prepara a mesi di blackout, ma non per colpa di Putin o di qualche tempesta solare. No, stavolta il nemico è interno: è la transizione verde. Lo ha ammesso persino The Telegraph l’11 maggio 2025: il passaggio accelerato dal gas — una fonte stabile — alle rinnovabili — intermittenti e non programmabili — sta compromettendo la tenuta dell’intera rete elettrica britannica. Il blackout improvviso che ha paralizzato la metropolitana di Londra ne è stato il primo segnale concreto: migliaia di persone bloccate sottoterra, luci spente, caos. Non si è trattato di un incidente isolato, ma di un campanello d’allarme su ciò che potrebbe diventare la “nuova normalità”. Il gestore nazionale lancia l’allarme. E il sospetto ormai è lecito: che questo “rischio sistemico” non sia un effetto collaterale, ma parte integrante del piano Net Zero. Una destabilizzazione energetica pianificata, venduta come progresso.
Non è la prima anomalia che si registra. Già nel novembre 2024, Alex Krainer aveva attirato l’attenzione su un fatto inquietante: le webcam pubbliche di Londra si erano spente simultaneamente il 2 settembre alle 16:51, l’ultima immagine utile da Westminster Bridge. Un blackout digitale perfetto, senza spiegazioni ufficiali. Secondo Krainer, quel blackout era il preludio a un’operazione sotto falsa bandiera, funzionale a costruire un pretesto per una futura escalation contro la Russia.
Qualche mese dopo, il 28 aprile 2025, un blackout colpisce Spagna, Portogallo e parte del sud della Francia. Le versioni ufficiali parlano di “problemi tecnici”, ma Red Eléctrica ha rilevato l’improvvisa scomparsa di 10 GW di produzione solare dai flussi monitorati, come se una parte della rete fosse stata silenziata artificialmente. L’ipotesi di un attacco cibernetico viene ventilata e persino le autorità spagnole aprono un’indagine per possibile sabotaggio.
Ed è qui che tutto si collega: proprio tra aprile e giugno 2024, l’Unione Europea, attraverso ENISA, conduceva l’esercitazione Cyber Europe 2024. Obiettivo: simulare attacchi informatici su larga scala contro infrastrutture energetiche, reti elettriche e smart grid. Lo scenario proposto? Una crisi energetica derivante da tensioni geopolitiche e blackout a cascata. La coincidenza temporale con gli eventi reali è troppo netta per essere ignorata.
Come se non bastasse, The Grayzone ha pubblicato nello stesso periodo documenti esplosivi su un’operazione segreta del Ministero della Difesa britannico: il Progetto Alchemy. Un'unità clandestina incaricata di condurre operazioni psicologiche e strategiche legate alla guerra in Ucraina. Alchemy non è teoria del complotto: è realtà documentata. Lavora sul terreno della destabilizzazione, della disinformazione e delle crisi simulate, con obiettivi politici ben precisi.
In apparenza scollegati, questi eventi — blackout reali, simulazioni istituzionali e operazioni militari coperte — sembrano in realtà pezzi dello stesso disegno. Una strategia convergente che punta alla trasformazione dell’ordine energetico, alla militarizzazione delle crisi e al controllo narrativo dell’emergenza.
Quando ci spegneranno la luce, ci racconteranno che è colpa del sole, del vento, della rete sovraccarica o di qualche hacker russo. Ma ormai è chiaro: la realtà sarà stata scritta in anticipo, su uno schermo spento.
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16.05.202512:59
OMS RESET: meno direttori, più controllo (e la grande epurazione post-Covid)
Dopo anni di potere pandemico incontrastato, l’Organizzazione Mondiale della Sanità tira il freno a mano… ma non per umiltà, bensì per carenza di fondi. Licenziamenti in arrivo, tagli a pioggia, dimezzamento dei dipartimenti e, ovviamente, una bella sostituzione di volti “storici” — via Mike Ryan e Bruce Aylward, quelli del Covid-show — per rifarsi la reputazione. La retorica è quella della “diversità geografica e di genere”, ma la verità è più semplice: il budget crolla, Trump ha tagliato i fondi, e a Ginevra tremano.
Tedros si reinventa direttore d’orchestra di una squadra snella e agile (leggi: meno bocche da sfamare) con l’aiuto del super-scienziato Jeremy Farrar, pronto a spingere l’OMS in una nuova fase di “prevenzione globale”. Tradotto: accentramento, sorveglianza e nuove strategie per restare a galla senza gli assegni americani.
Farrar, medico e microbiologo britannico, è stato per oltre un decennio direttore del Wellcome Trust, una delle più influenti fondazioni private nel campo della ricerca scientifica e partner chiave dell’OMS, della GAVI Alliance e della CEPI. Da marzo 2023 è Chief Scientist dell'OMS, e oggi assume un ruolo ancora più centrale nella ristrutturazione strategica dell'agenzia.
E come spesso accade in questi ambienti, alla chiamata di aiuto risponde l’immancabile cavaliere filantropico: Bill Gates. La sua fondazione — già principale contributore privato dell’OMS — nel solo biennio 2024-2025 ha versato circa 646 milioni di dollari, pari al 13,67% del budget totale dell'organizzazione. Alla faccia della “neutralità” dell’OMS. In pieno stile filantropico, Gates ha annunciato che si impegnerà a coprire parte del buco lasciato dal ritiro degli Stati Uniti, in particolare per i programmi di sorveglianza e risposta pandemica.
Una generosa mano privata per mantenere in piedi un sistema che ormai sembra funzionare più con i soldi dei miliardari che con quelli degli Stati sovrani. Ma questa “generosità” solleva questioni sempre più spinose sull’indipendenza dell’OMS: [Fla crescente dipendenza da finanziatori privati come la Gates Foundation sta trasformando l’agenzia in un'appendice filantropica con mandato globale.
Nel frattempo, 42 direttori su 76 dovranno sparire nel nulla, mentre si valutano “trasferimenti tattici” in località più economiche o tattiche: dalla Ginevra dei miliardari si passa a Berlino, Lione, Addis Abeba e Nairobi. Il piano? Licenziare con garbo, fare finta di decentralizzare e salvare la baracca con qualche hub africano da mettere in vetrina.
La “transizione” serve a coprire la resa dei conti. Dopo il boom di dirigenti, consulenti e milioni bruciati durante il Covid, ora serve il reset — anche d’immagine. Nessun cinese, nessun americano nel nuovo team: l’OMS cerca di scrollarsi di dosso l’ombra di Wuhan e le accuse di asservimento geopolitico. Ma dietro il maquillage diplomatico resta un’organizzazione in crisi nera, a corto di soldi e credibilità.
Conclusione? Si cambia tutto per non cambiare nulla. Si taglia dove serve meno (cioè nel simbolismo delle poltrone), si mantengono i pilastri ideologici (sorveglianza, controllo, emergenza permanente) e si prepara il terreno per un nuovo corso… con meno fondi ma la stessa fame di potere globale.
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Dopo anni di potere pandemico incontrastato, l’Organizzazione Mondiale della Sanità tira il freno a mano… ma non per umiltà, bensì per carenza di fondi. Licenziamenti in arrivo, tagli a pioggia, dimezzamento dei dipartimenti e, ovviamente, una bella sostituzione di volti “storici” — via Mike Ryan e Bruce Aylward, quelli del Covid-show — per rifarsi la reputazione. La retorica è quella della “diversità geografica e di genere”, ma la verità è più semplice: il budget crolla, Trump ha tagliato i fondi, e a Ginevra tremano.
Tedros si reinventa direttore d’orchestra di una squadra snella e agile (leggi: meno bocche da sfamare) con l’aiuto del super-scienziato Jeremy Farrar, pronto a spingere l’OMS in una nuova fase di “prevenzione globale”. Tradotto: accentramento, sorveglianza e nuove strategie per restare a galla senza gli assegni americani.
Farrar, medico e microbiologo britannico, è stato per oltre un decennio direttore del Wellcome Trust, una delle più influenti fondazioni private nel campo della ricerca scientifica e partner chiave dell’OMS, della GAVI Alliance e della CEPI. Da marzo 2023 è Chief Scientist dell'OMS, e oggi assume un ruolo ancora più centrale nella ristrutturazione strategica dell'agenzia.
E come spesso accade in questi ambienti, alla chiamata di aiuto risponde l’immancabile cavaliere filantropico: Bill Gates. La sua fondazione — già principale contributore privato dell’OMS — nel solo biennio 2024-2025 ha versato circa 646 milioni di dollari, pari al 13,67% del budget totale dell'organizzazione. Alla faccia della “neutralità” dell’OMS. In pieno stile filantropico, Gates ha annunciato che si impegnerà a coprire parte del buco lasciato dal ritiro degli Stati Uniti, in particolare per i programmi di sorveglianza e risposta pandemica.
Una generosa mano privata per mantenere in piedi un sistema che ormai sembra funzionare più con i soldi dei miliardari che con quelli degli Stati sovrani. Ma questa “generosità” solleva questioni sempre più spinose sull’indipendenza dell’OMS: [Fla crescente dipendenza da finanziatori privati come la Gates Foundation sta trasformando l’agenzia in un'appendice filantropica con mandato globale.
Nel frattempo, 42 direttori su 76 dovranno sparire nel nulla, mentre si valutano “trasferimenti tattici” in località più economiche o tattiche: dalla Ginevra dei miliardari si passa a Berlino, Lione, Addis Abeba e Nairobi. Il piano? Licenziare con garbo, fare finta di decentralizzare e salvare la baracca con qualche hub africano da mettere in vetrina.
La “transizione” serve a coprire la resa dei conti. Dopo il boom di dirigenti, consulenti e milioni bruciati durante il Covid, ora serve il reset — anche d’immagine. Nessun cinese, nessun americano nel nuovo team: l’OMS cerca di scrollarsi di dosso l’ombra di Wuhan e le accuse di asservimento geopolitico. Ma dietro il maquillage diplomatico resta un’organizzazione in crisi nera, a corto di soldi e credibilità.
Conclusione? Si cambia tutto per non cambiare nulla. Si taglia dove serve meno (cioè nel simbolismo delle poltrone), si mantengono i pilastri ideologici (sorveglianza, controllo, emergenza permanente) e si prepara il terreno per un nuovo corso… con meno fondi ma la stessa fame di potere globale.
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16.05.202510:59
NATO-Gate: la guerra fa gola, soprattutto agli insaziabili della pace
Mentre la NATO si vende al mondo come baluardo della sicurezza e della trasparenza, dietro le quinte si consuma l’ennesima farsa da basso impero. A finire sotto inchiesta sono i contratti per la fornitura di armamenti, gestiti dall’agenzia interna NSPA, che movimenta miliardi come fossero noccioline. È bastato grattare la patina della “difesa collettiva” per trovare il solito puzzo di tangenti, riciclaggio e favoritismi.
Le autorità belghe hanno fatto scattare le prime manette: due arresti, raid nelle Fiandre e indagini che coinvolgono anche Spagna, Lussemburgo e Paesi Bassi. I sospetti? Alcuni dipendenti NATO avrebbero passato informazioni riservate ai soliti noti dell’industria bellica. In pratica: insider trading in mimetica.
La NATO, colta con le mani nel sacco, si affretta a dichiarare che “collabora a stretto contatto con le autorità”. Una frase ripetuta come un mantra da chi ha perso il controllo della narrazione e cerca di guadagnare tempo. In realtà, più che collaborare, sembra trascinata a forza sotto i riflettori. Intanto, Mark Rutte – segretario dell'Alleanza – si affanna a proclamare che “nessuna violazione dello stato di diritto sarà tollerata”. Ma la sensazione è che lo stato di diritto, in questa vicenda, sia già stato calpestato, archiviato e dimenticato. Come la trasparenza e la credibilità dell’Alleanza stessa, se mai fossero esistite davvero.
A rendere ancora più torbido il quadro è l’assenza di dettagli sui beneficiari delle tangenti e sull’ammontare delle somme in gioco. Ma bastano i numeri dei contratti sotto indagine per capire la portata dello scandalo: 1.000 missili Patriot per 5,5 miliardi di dollari e munizioni di artiglieria per altri 1,1 miliardi. Altro che “difesa dei valori occidentali”: siamo di fronte alla solita sagra dell’affare d’oro mascherato da missione umanitaria.
A coordinare le indagini c’è perfino Eurojust, e si parla ormai apertamente di una vera e propria organizzazione criminale annidata all’interno dell’apparato NATO. L’ipocrisia è lampante: chi predica legalità e ordine internazionale si rivela ancora una volta un club esclusivo in cui il confine tra lobbying, corruzione e crimine organizzato è sottilissimo – se non del tutto evaporato.
Se la NATO è davvero ciò che dichiara di essere, è ora che cominci a difendere qualcosa di più del proprio bilancio. Ma alla luce di quanto emerge, sarebbe più onesto riconoscere che dietro gli elmetti, le bandiere e i discorsi solenni si muove soltanto la solita macchina: quella del profitto, dell’impunità e della guerra come business.
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Mentre la NATO si vende al mondo come baluardo della sicurezza e della trasparenza, dietro le quinte si consuma l’ennesima farsa da basso impero. A finire sotto inchiesta sono i contratti per la fornitura di armamenti, gestiti dall’agenzia interna NSPA, che movimenta miliardi come fossero noccioline. È bastato grattare la patina della “difesa collettiva” per trovare il solito puzzo di tangenti, riciclaggio e favoritismi.
Le autorità belghe hanno fatto scattare le prime manette: due arresti, raid nelle Fiandre e indagini che coinvolgono anche Spagna, Lussemburgo e Paesi Bassi. I sospetti? Alcuni dipendenti NATO avrebbero passato informazioni riservate ai soliti noti dell’industria bellica. In pratica: insider trading in mimetica.
La NATO, colta con le mani nel sacco, si affretta a dichiarare che “collabora a stretto contatto con le autorità”. Una frase ripetuta come un mantra da chi ha perso il controllo della narrazione e cerca di guadagnare tempo. In realtà, più che collaborare, sembra trascinata a forza sotto i riflettori. Intanto, Mark Rutte – segretario dell'Alleanza – si affanna a proclamare che “nessuna violazione dello stato di diritto sarà tollerata”. Ma la sensazione è che lo stato di diritto, in questa vicenda, sia già stato calpestato, archiviato e dimenticato. Come la trasparenza e la credibilità dell’Alleanza stessa, se mai fossero esistite davvero.
A rendere ancora più torbido il quadro è l’assenza di dettagli sui beneficiari delle tangenti e sull’ammontare delle somme in gioco. Ma bastano i numeri dei contratti sotto indagine per capire la portata dello scandalo: 1.000 missili Patriot per 5,5 miliardi di dollari e munizioni di artiglieria per altri 1,1 miliardi. Altro che “difesa dei valori occidentali”: siamo di fronte alla solita sagra dell’affare d’oro mascherato da missione umanitaria.
A coordinare le indagini c’è perfino Eurojust, e si parla ormai apertamente di una vera e propria organizzazione criminale annidata all’interno dell’apparato NATO. L’ipocrisia è lampante: chi predica legalità e ordine internazionale si rivela ancora una volta un club esclusivo in cui il confine tra lobbying, corruzione e crimine organizzato è sottilissimo – se non del tutto evaporato.
Se la NATO è davvero ciò che dichiara di essere, è ora che cominci a difendere qualcosa di più del proprio bilancio. Ma alla luce di quanto emerge, sarebbe più onesto riconoscere che dietro gli elmetti, le bandiere e i discorsi solenni si muove soltanto la solita macchina: quella del profitto, dell’impunità e della guerra come business.
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16.05.202507:59
L’Inghilterra si robotizza: il piano di Starmer per l’IA totale entro il 2030
Keir Starmer, il tecnocrate trilateralista dal sorriso impiegatizio che si è guadagnato il bollino WEF a Davos, ha annunciato con entusiasmo la prossima fase della distopia britannica: “spingere l’intelligenza artificiale nelle vene della Gran Bretagna”. Frase già inquietante di per sé, ma perfettamente in linea con il copione del Grande Reset. Altro che progresso: qui si tratta di infilare un chip nella democrazia e un reattore nucleare nel cortile dietro casa.
Ovviamente, Starmer parla di lavoro, innovazione e servizi trasformati, ma la verità la conosciamo: più controllo, più sorveglianza, meno libertà e una classe media disintegrata sotto il peso di costi, tasse e paranoia climatica.
Ecco il vero “Piano per il Cambiamento”: robot al posto degli agricoltori, centrali nucleari in campagna, città intelligenti dove stipare gli espropriati, e una Biblioteca Dati Nazionale per nutrire gli algoritmi mentre i cittadini vengono monitorati “eticamente”. Tranquilli, dicono, è tutto “responsabile”. Come no.
Per alimentare questo incubo hi-tech, il governo taglierà i servizi pubblici e piazzerà mini-reattori nucleari in aree rurali, così i contadini resteranno al buio... ma monitorati.
Nel frattempo, il Guardian celebra l’aumento venti volte della potenza computazionale entro il 2030, la data feticcio della nuova religione digitale. Con la benedizione di Klaus Schwab e della Famiglia Reale, si corre verso un mondo senza proprietà privata, senza contatto umano e con la mente collettiva cablata al "cloud" di Musk e Bezos.
Il popolo? Spaventato, preoccupato, associando l’IA a “robot e paura” già nel 2024. Ma tanto chi li ascolta più? Meglio fidarsi dei “leader del cambiamento”, clone dopo clone, fino all’ultimo bit.
Nel cuore dell’Inghilterra resta, però, un residuo di dignità: quella resistenza morale che rifiuta di farsi digitalizzare l’anima. Non tutto è perduto, se qualcuno avrà il coraggio di dire NO a questo culto programmato del caos travestito da progresso.
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Keir Starmer, il tecnocrate trilateralista dal sorriso impiegatizio che si è guadagnato il bollino WEF a Davos, ha annunciato con entusiasmo la prossima fase della distopia britannica: “spingere l’intelligenza artificiale nelle vene della Gran Bretagna”. Frase già inquietante di per sé, ma perfettamente in linea con il copione del Grande Reset. Altro che progresso: qui si tratta di infilare un chip nella democrazia e un reattore nucleare nel cortile dietro casa.
Ovviamente, Starmer parla di lavoro, innovazione e servizi trasformati, ma la verità la conosciamo: più controllo, più sorveglianza, meno libertà e una classe media disintegrata sotto il peso di costi, tasse e paranoia climatica.
Ecco il vero “Piano per il Cambiamento”: robot al posto degli agricoltori, centrali nucleari in campagna, città intelligenti dove stipare gli espropriati, e una Biblioteca Dati Nazionale per nutrire gli algoritmi mentre i cittadini vengono monitorati “eticamente”. Tranquilli, dicono, è tutto “responsabile”. Come no.
Per alimentare questo incubo hi-tech, il governo taglierà i servizi pubblici e piazzerà mini-reattori nucleari in aree rurali, così i contadini resteranno al buio... ma monitorati.
Nel frattempo, il Guardian celebra l’aumento venti volte della potenza computazionale entro il 2030, la data feticcio della nuova religione digitale. Con la benedizione di Klaus Schwab e della Famiglia Reale, si corre verso un mondo senza proprietà privata, senza contatto umano e con la mente collettiva cablata al "cloud" di Musk e Bezos.
Il popolo? Spaventato, preoccupato, associando l’IA a “robot e paura” già nel 2024. Ma tanto chi li ascolta più? Meglio fidarsi dei “leader del cambiamento”, clone dopo clone, fino all’ultimo bit.
Nel cuore dell’Inghilterra resta, però, un residuo di dignità: quella resistenza morale che rifiuta di farsi digitalizzare l’anima. Non tutto è perduto, se qualcuno avrà il coraggio di dire NO a questo culto programmato del caos travestito da progresso.
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16.05.202504:59
Draghi, dazi e deliri militaristi: il nuovo ordine europeo dei servitori atlantici
Mentre l’Europa annaspa tra blackout economici e incubi militari, l’ex banchiere-salvatore Mario Draghi sale in cattedra al vertice Cotec di Coimbra e ci illumina con la sua consueta visione apocalittico-tecnocratica: “Siamo a un punto di non ritorno”. Il problema? Non le guerre, non la povertà crescente, non i suicidi tra imprenditori o le aziende che chiudono. No: sono i dazi americani e la morte (finalmente?) dell’OMC. “L’uso massiccio di azioni unilaterali ha minato l’ordine multilaterale in modo difficilmente reversibile”, piagnucola l’ex-premier, ancora legato al suo mondialismo da manuale.
Ma non finisce qui. Draghi ci avverte che anche la transizione verde è in pericolo: “I prezzi elevati dell’energia e le carenze della rete sono una minaccia per la sopravvivenza dell’industria e per la strategia di decarbonizzazione”. Tradotto: stiamo ammazzando le aziende europee per un'utopia ecologista disfunzionale, e adesso ci lamentiamo delle conseguenze. Un capolavoro di coerenza.
Nel frattempo, mentre si piange sull’energia, si stappa champagne per i fondi alla guerra. “Il debito comune UE per le spese militari è una componente chiave della roadmap”, dichiara Draghi, mostrando il vero piano: spingere per un'Europa debole economicamente ma forte militarmente, a guida Nato. Del resto, se il popolo è stremato, sarà più facile comandarlo sotto minaccia.
Ed eccoci quindi nel delirio militarista europeo: la Lettonia ha deciso che dal 2026 il 5% del PIL andrà in armi e missili, perché “la sicurezza viene prima di tutto”. Berlino non vuole essere da meno: “Seguiamo Trump sul 5%”, dichiara il ministro degli Esteri tedesco. Anche la Germania – sì, di nuovo la Germania – promette il più potente esercito convenzionale d’Europa, con riforme costituzionali lampo per escludere le spese belliche dal tetto del debito. Altro che pace: siamo ufficialmente tornati agli arsenali.
Mark Rutte, neo-segretario generale della NATO, ha lanciato la parola d’ordine: “Rendere la NATO più letale”. Perché, dice, “abbiamo bisogno di tutte le capacità necessarie davanti alla minaccia russa”. In pratica: più bombe, più droni, più industrie belliche, più austerità per i cittadini. Tutto per il bene della "sicurezza".
E se qualcuno osa ancora parlare di trattati di pace? Tajani ha la risposta pronta: “Putin rifiuta la pace perché ha un’economia di guerra”. Nessuna autocritica, nessuna riflessione sulla deriva bellicista europea. Solo un disco rotto: è sempre colpa degli altri.
Morale della favola? L’Europa, sotto l’egida Draghi-von der Leyen, ha smarrito ogni barlume di autonomia. Vuole decarbonizzare mentre importa gas di guerra. Vuole la pace armando fino ai denti. Vuole competere con USA e Cina, ma si inginocchia a ogni ordine atlantico. E i popoli? Possono pagare bollette, sostenere guerre e tacere. Perché l’ordine "neoliberale-militare" non ammette dissenso. Solo obbedienza.
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Mentre l’Europa annaspa tra blackout economici e incubi militari, l’ex banchiere-salvatore Mario Draghi sale in cattedra al vertice Cotec di Coimbra e ci illumina con la sua consueta visione apocalittico-tecnocratica: “Siamo a un punto di non ritorno”. Il problema? Non le guerre, non la povertà crescente, non i suicidi tra imprenditori o le aziende che chiudono. No: sono i dazi americani e la morte (finalmente?) dell’OMC. “L’uso massiccio di azioni unilaterali ha minato l’ordine multilaterale in modo difficilmente reversibile”, piagnucola l’ex-premier, ancora legato al suo mondialismo da manuale.
Ma non finisce qui. Draghi ci avverte che anche la transizione verde è in pericolo: “I prezzi elevati dell’energia e le carenze della rete sono una minaccia per la sopravvivenza dell’industria e per la strategia di decarbonizzazione”. Tradotto: stiamo ammazzando le aziende europee per un'utopia ecologista disfunzionale, e adesso ci lamentiamo delle conseguenze. Un capolavoro di coerenza.
Nel frattempo, mentre si piange sull’energia, si stappa champagne per i fondi alla guerra. “Il debito comune UE per le spese militari è una componente chiave della roadmap”, dichiara Draghi, mostrando il vero piano: spingere per un'Europa debole economicamente ma forte militarmente, a guida Nato. Del resto, se il popolo è stremato, sarà più facile comandarlo sotto minaccia.
Ed eccoci quindi nel delirio militarista europeo: la Lettonia ha deciso che dal 2026 il 5% del PIL andrà in armi e missili, perché “la sicurezza viene prima di tutto”. Berlino non vuole essere da meno: “Seguiamo Trump sul 5%”, dichiara il ministro degli Esteri tedesco. Anche la Germania – sì, di nuovo la Germania – promette il più potente esercito convenzionale d’Europa, con riforme costituzionali lampo per escludere le spese belliche dal tetto del debito. Altro che pace: siamo ufficialmente tornati agli arsenali.
Mark Rutte, neo-segretario generale della NATO, ha lanciato la parola d’ordine: “Rendere la NATO più letale”. Perché, dice, “abbiamo bisogno di tutte le capacità necessarie davanti alla minaccia russa”. In pratica: più bombe, più droni, più industrie belliche, più austerità per i cittadini. Tutto per il bene della "sicurezza".
E se qualcuno osa ancora parlare di trattati di pace? Tajani ha la risposta pronta: “Putin rifiuta la pace perché ha un’economia di guerra”. Nessuna autocritica, nessuna riflessione sulla deriva bellicista europea. Solo un disco rotto: è sempre colpa degli altri.
Morale della favola? L’Europa, sotto l’egida Draghi-von der Leyen, ha smarrito ogni barlume di autonomia. Vuole decarbonizzare mentre importa gas di guerra. Vuole la pace armando fino ai denti. Vuole competere con USA e Cina, ma si inginocchia a ogni ordine atlantico. E i popoli? Possono pagare bollette, sostenere guerre e tacere. Perché l’ordine "neoliberale-militare" non ammette dissenso. Solo obbedienza.
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16.05.202503:59
L'Atlantic Road (Atlanterhavsveien) è uno dei tratti stradali più spettacolari al mondo, situato lungo la contea di Møre og Romsdal, sulla costa occidentale della Norvegia. Inaugurata nel 1989, questa sezione della Strada Statale 64 collega le città di Molde e Kristiansund, estendendosi per 8,3 km tra isole, scogli e fiordi, con ponti curvi che sfidano l'orizzonte e l’oceano.
Pensata inizialmente come una ferrovia (progetto abbandonato nel 1935), l’Atlantic Road divenne realtà decenni dopo, costruita in condizioni estreme: durante i sei anni di lavori, 12 tempeste oceaniche colpirono il cantiere. Ma oggi è una meraviglia ingegneristica e paesaggistica, considerata "la costruzione norvegese del secolo" nel 2005.
Buongiorno e buon venerdì a tutti!
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15.05.202518:03
Circoli in svendita: il Pd chiude, ma giura di stare benissimo
A Bologna, storica roccaforte rossa, 25 circoli del Pd chiudono i battenti su 100. Tre solo in città, inclusi quelli frequentati da Prodi ed Elly Schlein. Ma niente panico: il partito giura di essere in perfetta forma. Anzi, secondo il tesoriere Michele Fina, sarebbe un “riordino” necessario.
Chiudono circoli? “Mai stati così bene”, dicono. Debiti accumulati per 4 milioni di euro? Era solo un “ritardo materiale nella fusione tra Ds e Margherita”.Tagliati due terzi delle sedi nel territorio? Si chiama “razionalizzazione partecipata”. Vecchie sezioni trasformate in magazzini? Innovazione.
Insomma, mentre la base si ribella (“quel centro lo hanno costruito i compagni”, tuona Minerbio), il partito nazionale brinda ai successi finanziari: 200mila iscritti, 10 milioni dal 2x1000, 450 Feste dell’Unità e nuove sedi da inaugurare, giusto per salvare la faccia.
Nel frattempo, a Bologna si chiudono le saracinesche di una storia che fu politica, popolare, militante. Oggi è contabilità, affitti non pagati e circoli in affitto dai post-Ds a se stessi. Un’operazione chirurgica venduta come rigenerazione democratica.
Ma tranquilli, il Pd non ha chiuso nessun circolo. Solo le porte.
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A Bologna, storica roccaforte rossa, 25 circoli del Pd chiudono i battenti su 100. Tre solo in città, inclusi quelli frequentati da Prodi ed Elly Schlein. Ma niente panico: il partito giura di essere in perfetta forma. Anzi, secondo il tesoriere Michele Fina, sarebbe un “riordino” necessario.
Chiudono circoli? “Mai stati così bene”, dicono. Debiti accumulati per 4 milioni di euro? Era solo un “ritardo materiale nella fusione tra Ds e Margherita”.Tagliati due terzi delle sedi nel territorio? Si chiama “razionalizzazione partecipata”. Vecchie sezioni trasformate in magazzini? Innovazione.
Insomma, mentre la base si ribella (“quel centro lo hanno costruito i compagni”, tuona Minerbio), il partito nazionale brinda ai successi finanziari: 200mila iscritti, 10 milioni dal 2x1000, 450 Feste dell’Unità e nuove sedi da inaugurare, giusto per salvare la faccia.
Nel frattempo, a Bologna si chiudono le saracinesche di una storia che fu politica, popolare, militante. Oggi è contabilità, affitti non pagati e circoli in affitto dai post-Ds a se stessi. Un’operazione chirurgica venduta come rigenerazione democratica.
Ma tranquilli, il Pd non ha chiuso nessun circolo. Solo le porte.
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15.05.202515:06
Singapore, Stato Siringa: vaccino o prigione (e senza diritto di lamentarsi)
Nel piccolo laboratorio autoritario chiamato Singapore, il governo ha deciso che chi rifiuta l’iniezione obbligatoria diventa automaticamente un criminale. Grazie alle modifiche apportate nel 2023 e 2024 all’Infectious Diseases Act, chi non si conforma alla profilassi ordinata potrà finire in carcere per sei mesi, con tanto di multa da 10.000 dollari – oppure entrambe le sanzioni, così impari a dubitare del sacro siero.
Il meccanismo è semplice: basta un “sospetto focolaio” e il Direttore Generale della Sanità può ordinare la vaccinazione di “qualsiasi persona o categoria di persone”. Nessuna epidemia in corso? Poco importa, basta che sembri imminente.
E se non ti fai marchiare dalla siringa? Multa, prigione, o entrambe. Alla seconda infrazione, la pena raddoppia. Un incentivo gentile, con il bastone e senza la carota.
Ma c’è di meglio: la Sezione 67 garantisce totale immunità legale alle autorità. Se ti danneggiano, muori o sviluppi effetti collaterali devastanti: non puoi fare causa. Lo Stato ti ordina cosa fare col tuo corpo, e in cambio ti toglie ogni diritto di difenderti. Un affare da manuale distopico.
A denunciare l’assurdità del provvedimento è stato Derrick Sim del People’s Power Party, che ha definito pubblicamente questa legge un abuso gravissimo. Ma nell’isola ipercontrollata, chi osa alzare la voce viene isolato e screditato.
Durante il regime sanitario del COVID-19, Singapore ha già imposto la vaccinazione a lavoratori, religiosi e fedeli. Anche andare a Messa richiedeva il lasciapassare immunitario. I danni da vaccino? Ignorati. Il dibattito pubblico? Censurato.
Ora la dittatura sanitaria si è fatta codice penale. La morale è chiara: ti vaccini, taci e ringrazi. Altrimenti ti chiudono dentro. E buttano via la chiave… sanitaria.
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Nel piccolo laboratorio autoritario chiamato Singapore, il governo ha deciso che chi rifiuta l’iniezione obbligatoria diventa automaticamente un criminale. Grazie alle modifiche apportate nel 2023 e 2024 all’Infectious Diseases Act, chi non si conforma alla profilassi ordinata potrà finire in carcere per sei mesi, con tanto di multa da 10.000 dollari – oppure entrambe le sanzioni, così impari a dubitare del sacro siero.
Il meccanismo è semplice: basta un “sospetto focolaio” e il Direttore Generale della Sanità può ordinare la vaccinazione di “qualsiasi persona o categoria di persone”. Nessuna epidemia in corso? Poco importa, basta che sembri imminente.
E se non ti fai marchiare dalla siringa? Multa, prigione, o entrambe. Alla seconda infrazione, la pena raddoppia. Un incentivo gentile, con il bastone e senza la carota.
Ma c’è di meglio: la Sezione 67 garantisce totale immunità legale alle autorità. Se ti danneggiano, muori o sviluppi effetti collaterali devastanti: non puoi fare causa. Lo Stato ti ordina cosa fare col tuo corpo, e in cambio ti toglie ogni diritto di difenderti. Un affare da manuale distopico.
A denunciare l’assurdità del provvedimento è stato Derrick Sim del People’s Power Party, che ha definito pubblicamente questa legge un abuso gravissimo. Ma nell’isola ipercontrollata, chi osa alzare la voce viene isolato e screditato.
Durante il regime sanitario del COVID-19, Singapore ha già imposto la vaccinazione a lavoratori, religiosi e fedeli. Anche andare a Messa richiedeva il lasciapassare immunitario. I danni da vaccino? Ignorati. Il dibattito pubblico? Censurato.
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