🇺🇸 L’IMPERIALISMO NON VA ALLE ELEZIONI: LA FALSA ALTERNANZA NEL CUORE DELL’IMPERO
Nel dibattito pubblico occidentale, e in particolare nei media liberal, la politica americana viene rappresentata come una lotta epocale tra due visioni del mondo: da un lato il progressismo democratico, dall’altro il nazionalismo reazionario trumpiano. Ogni elezione viene narrata come un referendum sul futuro della democrazia, della libertà, dell’ordine globale. Ma questa rappresentazione è, in gran parte, una costruzione ideologica funzionale al mantenimento dello status quo.
Il circo elettorale serve a mascherare ciò che non cambia mai: la struttura imperiale del potere americano. Cambiano i presidenti, cambiano i toni, ma restano intatti i pilastri fondamentali: il primato del complesso militare-industriale, il dominio della finanza globale, l’assoggettamento dei paesi non allineati. L’Impero non cambia volto, cambia soltanto voce.
Non serve negare che vi siano differenze tra Trump e Biden, o tra Repubblicani e Democratici. Ma si tratta perlopiù di distinzioni marginali: nei toni, nelle retoriche, nelle scelte tattiche. Su ciò che davvero conta – la continuità dell’egemonia americana, il sostegno all’apparato militare, la difesa degli interessi delle élite economiche – la convergenza è totale, trasversale, strutturale.
Trump non è un isolazionista, come spesso viene descritto. La sua visione è brutalmente transazionale: l’Europa non è un alleato, ma un cliente che deve pagare il prezzo della “protezione” americana. La NATO non è mai stata una vera alleanza tra pari, ma uno strumento attraverso cui Washington ha esercitato il proprio dominio sull’Europa. Trump non mette in discussione questa architettura: si limita a renderla più trasparente e brutale. Dove prima c’erano parole come “valori condivisi” e “difesa collettiva”, ora ci sono richieste di pagamento, minacce e logica aziendale. Non meno egemonia, ma più spudorata. La sua apparente apertura verso la Russia non nasce da debolezza o ignoranza, ma da una valutazione strategica: un’alleanza tra Mosca e Pechino rappresenta una minaccia esistenziale per la supremazia globale degli Stati Uniti. Meglio allora cercare un equilibrio con il Cremlino per poter concentrare le risorse contro la Cina e contenere l’Iran.
Dall’altro lato, i Democratici – con l’apparato clintoniano e obamiano in prima linea – perseguono un’imperialismo “liberal”, a volto umano, condito da diritti umani e campagne per la democrazia. Ma il risultato è lo stesso: bombe “progressiste”, sanzioni “etiche”, guerre per procura mascherate da doveri morali.
La complicità con l’apartheid israeliano è uno dei punti in cui l’ipocrisia bipartisan americana raggiunge il suo apice. L’amministrazione Biden ha cercato di salvare le apparenze, fingendo di prendere le distanze dalla politica apertamente genocida del governo Netanyahu, ma senza mai mettere in discussione l’alleanza strategica con Tel Aviv. Le dichiarazioni di “preoccupazione” hanno accompagnato, senza mai ostacolare, il continuo massacro del popolo palestinese: bombardamenti su Gaza, assedi, esecuzioni extragiudiziali, demolizioni di case, espulsioni. Trump, già nella sua prima amministrazione, aveva abbandonato ogni finzione: riconobbe Gerusalemme come capitale, spostò l’ambasciata, legittimò gli insediamenti illegali e promosse apertamente l’apartheid israeliano sotto la retorica dell’“accordo del secolo”. Entrambi, con modalità diverse, hanno garantito a Israele piena impunità: l’unico vero consenso bipartisan negli Stati Uniti è quello che si esercita sulla pelle dei palestinesi.
Chi continua a illudersi che le elezioni americane siano un reale bivio ideologico non fa che confermare quanto sia efficace la macchina di propaganda interna. Il vero dissenso, negli Stati Uniti, non si misura tra i due poli del potere: è ciò che viene sistematicamente marginalizzato, ridicolizzato, silenziato.