Emergenze, "normalità" e nichilismo.
Riflessioni sulla psicologia odierna
Molto è stato detto sull'emergenza come metodo di governo: accentramento decisionale, velocità esecutiva, legittimazione popolare, eroificazione e riabilitazione di tecnici e politici, e così via. Un aspetto, però, è passato in secondo piano: la segreta attrazione che la mente comune nutre per essa. Se la moltitudine non fosse inconsciamente attratta dalla catastrofe, questa non si verificherebbe o non avrebbe seguito.
Lungo questa pista, individuiamo una psicopatologia diffusa che assomiglia alla sindrome di Stoccolma, ma su vasta scala.
Per capire il rapporto profondo tra stato di emergenza e normalità dobbiamo indagare come queste siano recepite dalla nostra psiche: quali molle azionino, quali pulsioni scatenino: cosa, in ultima istanza, significhino per noi.
La nostra indagine deve partire dall'orizzonte in cui l'Occidente si trova: il nichilismo. Una definizione approssimativa lo può descrivere come l'assenza programmatica di qualunque valore autentico e progetto vitale che consenta all'uomo di realizzare i suoi autentici bisogni e le sue profonde aspirazioni. Il nichilismo è come un campo pieno di sale, sul quale non può crescere la vita.
In un sistema nichilistico possono esserci, naturalmente, individui o gruppi non-nichilisti, che fioriscono durante l'incendio. Questi, però, sono l'eccezione.
L'Occidente, privo di bussole autentiche e stregato dai mantra transumani, è in pieno nichilismo: i suoi unici progetti di lungo periodo non sono vitali ma venefici, anti-umani. Il transumanesimo - ideologia del turbocapitalismo digitale - non pone l'essere umano al centro, ma il meccanismo. L'orizzonte è dunque alienante già in partenza, come emerge dal mantra ubiquo l'intelligenza artificiale è il futuro. Nessuna menzione dell'uomo, che finisce a piè di pagina - ponte tra l'animale e il robot.
Quando il nichilismo diventa la cifra di una civiltà, questa deve escogitare degli antidoti alla mancanza di senso della normalità: il funzionamento robotico e l'obbedienza alienante non si autolegittimano ad oltranza. L'emergenza è quindi l'antidoto all'insensatezza, alla banalità, alla bruttezza della normalità. Essa rimette in moto il reale, spezza il grigiume quotidiano - dà la parvenza di uscire dal nichilismo con un nuovo senso.
Per suscitare l'impressione del cambiamento, non è necessario che l'evento scatenante sia positivo, anzi. Il nichilismo ha bisogno, per perpetuarsi, di emergenze solo negative, che impediscano un autentico cambiamento. A titolo di esempio, cinque anni fa ci hanno detto che eravamo in pandemia, ed ecco che tutti sono corsi ai rispettivi ruoli: la maggioranza si è chiusa in casa, a recitare la parte della vittima (sadica, pronta a denunciare parenti e vicini), la minoranza a protestare e i padroni a fare i loro giochi. Tutto previsto dal copione.
La moltitudine agogna l'emergenza come narrazione collettiva che, almeno temporaneamente, faccia dimenticare la totale assenza di senso (o il senso disumano) del sistema in cui è intrappolata.
L'emergenza è l'accanimento terapeutico che consente la perpetuazione del nichilismo tramite finestre temporali che ne approfondiscano il solco. È la finta scialuppa di salvataggio nel naufragio dell'Occidente.
La verità più scomoda non è la singola emergenza, né la serie delle emergenze, quanto il fatto che la normalità non piaccia più a nessuno. Abbiamo costruito una casa che non vogliamo abitare, repellente, quindi salpiamo per le emergenze, ognuno col suo ruolo: spettatore, fanatico, critico, vittima, eroe, e così via. L'emergenza è diventata l'unica pillola in grado di farci deglutire la realtà, di dare un senso all'esistenza collettiva.
Le vie d'uscita da questa impasse sono solo due: o si verifica l'emergenza finale che, per la sua gravità, inneschi un cambiamento di coscienza su vasta scala, o una nuova élite (umana) immagina e inizia ad attuare un mondo diverso.