Istanbul-2: l'unico punto su cui le delegazioni hanno raggiunto un accordo reale riguarda lo scambio di prigionieri. Trova l'ennesima conferma il fatto che Mosca non abbia alcuna fretta. Ogni giorno che passa le vittime aumentano e la capacità negoziale dell'Ucraina diminuisce, nonostante il colossale sostegno ricevuto in oltre tre anni. La guerra prosegue.
La volontà di demolire la memoria della lotta al nazismo e del contributo sovietico alla sua sconfitta coincide, grossomodo, con la volontà di demolire il futuro dell'Europa.
Istanbul-2: l'unico punto su cui le delegazioni hanno raggiunto un accordo reale riguarda lo scambio di prigionieri. Trova l'ennesima conferma il fatto che Mosca non abbia alcuna fretta. Ogni giorno che passa le vittime aumentano e la capacità negoziale dell'Ucraina diminuisce, nonostante il colossale sostegno ricevuto in oltre tre anni. La guerra prosegue.
La volontà di demolire la memoria della lotta al nazismo e del contributo sovietico alla sua sconfitta coincide, grossomodo, con la volontà di demolire il futuro dell'Europa.
Nella sostanza sia la politica della Casa Bianca che quella di Bruxelles muovono contro l'Europa ed i suoi interessi generali, mentre l'abbaglio della ricostruzione ucraina distoglie l'attenzione dai problemi e dagli interessi generali dell'Italia. E' importante avere chiaro un punto: la Casa Bianca vuole la pace tra sé stessa ed il Cremlino, non la pace in Europa. Se gli Stati Uniti volessero davvero la pace in Europa non imporrebbero ai paesi dell'Europa in cui sono presenti militarmente sanzioni soffocanti, acquisti energetici antieconomici e colossali aumenti di spesa militare a proprio beneficio. Nella visione di Donald Trump così come in quella di Ursula Von der Leyen l'Unione Europea è insomma la luogotenenza antirussa – ed antieuropea - sotto il controllo di Washington. Con costi energetici insostenibili ed un ceto medio sempre più impoverito l'Europa continuerà a deindustrializzarsi a beneficio di Washington. Forti di questo presupposto gli Stati Uniti prevedono di concentrare tutte le proprie risorse in chiave anticinese. Mentre il Financial Times scrive in maniera esplicita che i paesi europei devono “sfoltire” il proprio stato sociale per dare forza all'economia di guerra, in sfregio a qualunque mantra sul pareggio di bilancio e sul patto di stabilità.
Il discorso alla nazione francese di Emmanuel Macron ha offerto una rappresentazione plastica di quali siano i connotati del fantomatico esercito europeo di cui si fa un gran parlare. Si, presto o tardi la NATO finirà, come tutte le alleanze militari: nonostante ciò, gli interessi della grande finanza statunitense continueranno a cercare ogni espediente per dividere lo spazio continentale fintanto che ne avranno la forza. Il “contingente di pace europeo” di cui si parla in queste ore sarebbe di certo uno strumento utile a questo scopo, richiedendo enormi risorse per la sua realizzazione e contribuendo al proseguimento dell'ottusa quanto dissennata politica di scontro con la Federazione russa. Il supposto nemico esistenziale contro cui si pretende di costruire l'unità europea è il più grande paese d'Europa, con il più grande esercito, la più grande popolazione e le maggiori risorse. Ad essere quantomai necessaria sarebbe una nuova architettura di sicurezza per tutto il continente, non contro la Federazione russa, ma con la Federazione russa. Una classe politica all'altezza del compito non permetterebbe in alcun modo di distorcere questa lampante realtà.
I fantasmi della democrazia, dei diritti e dei valori agitati a Bruxelles costituiscono il paravento logoro e ipocrita di quelle cricche che, se indisturbate, porteranno l'Europa nel baratro. Un' Europa degna del nome d'Europa dichiarerebbe guerra alla guerra ed alla povertà, arrivata in Italia a coinvolgere ben un italiano su sei. Invece ai popoli dell'Europa occidentale viene prescritto ogni giorno di odiare i russi, perché presto o tardi, gli ucraini da mandare al macello per far crescere gli indici di Wall Street potremmo essere noi, i nostri figli o i nostri nipoti.
Nonostante l’obiettivo della pace in Ucraina dichiarato dalla Casa Bianca, l’Unione Europea ha annunciato nella persona di Ursula Von der Leyen un piano di riarmo dal valore di 800 miliardi di euro. E’ probabile che, nonostante le dichiarazioni d'intenti apparentemente contrastanti tra Washington e Bruxelles, i principali beneficiari di questo piano siano comunque destinati ad essere gli Stati Uniti. Del resto, come far coesistere un piano del genere con le commesse per la propria industria bellica che Washington pretende apertamente dai paesi dell’Europa occidentale tra cui l’Italia? La burocrazia dell’Unione Europea, difficilmente per caso, si trova in buona misura nelle mani di funzionari polacchi e baltici, accomunati dall'accecamento ideologico antirusso. La trazione baltica imposta all’Unione Europea è una delle migliori trovate che Washington ha saputo escogitare a discapito degli interessi europei.
Il rinnovato sostegno – pari a 2,5 miliardi di sterline – annunciato dal primo ministro britannico Starmer a favore dell'Ucraina sembra avere a che fare più con la volontà di accaparrarsi quante più risorse possibile – siano queste metalli rari e non – che con il paventato invio di truppe in Ucraina in sé. Una lotta, quella per le risorse dell'Ucraina, in cui la Gran Bretagna - come la Francia - non vuole accontentarsi delle briciole lasciate cadere dagli Stati Uniti. Oltre a questo, nonostante i toni altisonanti, secondo le valutazioni di alcuni media britannici, i carri armati nella disponibilità dell’esercito britannico sarebbero nell’ordine di qualche decina: questo elemento, certo non l’unico, suggerisce che le bellicose dichiarazioni del primo ministro britannico così come di altri rappresentanti dell’Unione Europea servano in primo luogo a far gonfiare i titoli in borsa dell’industria militare, piuttosto che a preparare le proprie truppe a marciare sulla Piazza Rossa. Giova comunque ricordare come anche durante la seconda guerra mondiale e fino all’epilogo di Suez le posizioni di Londra sono state ben più oltranziste di quelle di Washington.
Malgrado le dichiarazioni di Donald Trump, gli interessi statunitensi nella sostanza spingono l'Europa verso il baratro della guerra. Del resto, se un'iniziativa europea puntasse realmente alla pace ed alla stabilità con il presupposto del rapporto di buon vicinato con Mosca, gli interessi della grande finanza statunitense ne risulterebbero indeboliti. Con l'obiettivo di scongiurare questo scenario Washington tratta con Mosca a partire dai grandi temi che riguardano la reciproca sicurezza strategica – nucleare e convenzionale – ed impone alla burocrazia dell'Unione Europea l'oltranzismo di cui ci troviamo a prendere atto. Enormi commesse per l'industria militare statunitense sono in attesa di essere pagate con i soldi dei lavoratori italiani e del resto d'Europa, mentre Washington ringrazia con la beffa dei dazi. Dazi a cui si dovrebbe almeno rispondere con l'immediato annullamento delle sanzioni alla Federazione russa, stimolando il rilancio dell'industria italiana e più in generale europea.
Nessuno può dire quanto tempo sarà necessario per realizzare in Ucraina una tregua e quanto per reale accordo di pace, ma di certo si possono rilevare alcune evidenze. Il negoziato tra Washington e Mosca non concerne soltanto il problema ucraino, ma la reciproca sicurezza strategica dei due attori - anzitutto in ambito nucleare – e le altre aree geografiche in cui il loro coinvolgimento è prominente. Il Cremlino non accetterà di concludere un accordo con Zelensky e non accetterà alcun Minsk-3, ossia un semplice congelamento della guerra. Il nuovo inquilino della Casa Bianca finora ha almeno un merito: quello di avere ricordato brutalmente che cosa ci sia davvero alle radici della guerra in Ucraina. La postura di Donald Trump impone anche ai più miopi di ammettere che l’Unione Europea non è un soggetto rilevante negli equilibri globali, ed in materia di guerra e di pace nemmeno negli equilibri europei. Il colossale sforzo bellico a sostegno di Kiev ha difeso soltanto interessi alieni e contrari a quelli della maggioranza degli ucraini: il cinismo esplicitato da Donald Trump - 500 miliardi di terre rare - in merito alle risorse ucraine si discosta solo nella forma da quello sostanziatosi nella politica delle precedenti amministrazioni. E conferma quello che l’Ucraina sia sempre stata dal 1991 ad oggi per Washington. Prima di tutto uno strumento per dividere ad ogni costo – fosse anche la distruzione dello strumento stesso – l’area occidentale del continente da quella orientale, oltre che una spina nel fianco di Mosca ed un enorme serbatoio di risorse. Del resto oggi Donald Trump ha gioco facile nell’imporre ai paesi dell’Europa occidentale l’acquisto di risorse energetiche statunitensi grazie al lavoro ereditato dalle precedenti amministrazioni. A questo si aggiungeranno i colossali acquisti di armi che Washington già non fa mistero di pretendere dai paesi dell’Europa occidentale, tra cui l’Italia. D’altra parte, di che cosa si alimenterà l’industria militare degli Stati Uniti se in Ucraina non dovessero essere inviate più armi, almeno con le stesse proporzioni degli ultimi tre anni? Mentre il mondo cambia, ed una nuova Yalta appare meno lontana, gli ucraini restano le prime vittime di enormi illusioni, pagando a loro spese un’ecatombe senza precedenti in Europa dal 1945 ad oggi.
L'accordo per il cessate il fuoco a Gaza raggiunto nelle ultime ore tra le forze israeliane e quelle palestinesi è il risultato di quanto le seconde sono riuscite ad imporre alle prime, nonostante oltre un anno di bombardamenti, la distruzione quasi completa di Gaza ed oltre cinquantamila morti accertati. Le dichiarazioni del governo israeliano e del suo primo ministro Benjamin Netanyahu - per il quale il problema degli ostaggi sarebbe stato risolto soltanto con l'uso della forza - sono state sconfessate dalla realtà. Del tutto evidente è come il governo israeliano si sia visto costretto - sul piano interno e sul piano internazionale – ad accettare condizioni che venivano rigettate in toto fino a qualche settimana prima: sia per quanto concerne gli ostaggi, sia per quanto concerne il controllo di Gaza. Le implicazione del cessate il fuoco stanno trascinando Israele nella peggiore crisi politica degli ultimi decenni, se non addirittura della propria storia. Il principale obiettivo della nuova amministrazione Trump ha verosimilmente molto a che fare con la volontà di recuperare il rapporto con le monarchie arabe, rapporto messo in crisi - oltre che dal mutamento degli equilibri globali - dal sostegno fattivo della Casa Bianca alla guerra di annientamento scatenata contro i palestinesi. Da una parte risulta evidente come l'accordo per il cessate il fuoco a Gaza sia stato raggiunto a poche ore dall'insediamento ufficiale della nuova amministrazione della Casa Bianca: dall'altra l'amministrazione Trump ha immediatamente annullato le sanzioni mosse in precedenza nei confronti di alcuni gruppi di coloni israeliani in Cisgiordania così come le restrizioni che bloccavano la vendita di alcuni tipi di ordigni ad Israele. Trovandosi indebolite sotto il profilo militare, le fazioni palestinesi hanno comunque raggiunto un risultato politico di importanza storica, nonostante la prosecuzione di atti ostili da parte israeliana sia a Gaza che in Cisgiordania. E' importante, tuttavia, tenere a mente il fragile equilibrio su cui si regge questo cessate il fuoco: un equilibrio che potrebbe venire in qualunque momento rivelandosi soltanto una parentesi senza la creazione di un vero stato palestinese.
La debolezza di Assad sul piano interno era nota da tempo anche a Mosca: una conferma di ciò si può trovare ricordando i colloqui promossi dal Cremlino tra il governo di Damasco e le opposizioni nell'ormai lontano 2018: sullo sfondo di questi colloqui era trapelata persino la bozza di nuova costituzione che avrebbe dato alla Siria un assetto più decentrato e maggiormente federale. Un progetto riformatore teso a dare maggiore rappresentatività e potere sopratutto alle grandi comunità sunnita e curda: un progetto mai attuato anche per l'oltranzismo di Assad con cui forse, almeno in alcune aree della Siria, sarebbe stato possibile salvare l'eredità di quel laicismo che appare destinato a scomparire. Considerando il proprio impegno in Ucraina ed il quadro siriano Mosca ha attuato la scelta probabilmente più logica in difesa dei propri interessi: del resto con una forza terrestre estremamente ridotta - impiegata ad oggi principalmente come polizia militare – e con le forze governative scioltesi - sul piano politico e militare - come neve al sole qualunque altra scelta sarebbe risultata velleitaria. Per Mosca ma soprattutto per Teheran il nuovo scenario siriano apre una nuova fase di rischi ed incognite. Oltre alle basi presenti nell'area un problema significativo per Mosca riguarda i combattenti jihadisti provenienti da tutto lo spazio post-sovietico inquadrati tra le fila dell'HTS: un problema che rimarrà sicuramente al centro dell'interlocuzione tra il Cremlino e la nuova dirigenza siriana. L'Iran rischia di perdere il corridoio terrestre con cui attraverso l'Iraq ha avuto fino ad oggi un accesso diretto al Mediterraneo, oltre a subire una maggiore pressione militare a ridosso delle proprie frontiere: nonostante questo rischio e la forte degli anni scorsi tra HTS ed Hezbollah le prime dichiarazioni del partito-milizia libanese sugli eventi siriani hanno evitato ogni presa di posizione marcata. L'era di Bashar al Assad è terminata, a differenza della grande guerra che si sta combattendo in tutto il Vicino Oriente.
Con la fuga di Bashar al Assad a Mosca finisce la storia della Repubblica araba di Siria nata con il tramonto del mandato coloniale francese. L'offensiva delle milizie sostenute dalla Turchia è riuscita ad arrivare a Damasco nel giro di pochi giorni, forte della copertura aerea israeliana che per mesi, ed anzi per anni, ha bombardato la Siria e della debolezza ormai terminale di Assad. Quello che le milizie antigovernative non sono riuscite a fare in oltre dieci anni di guerra civile si è compiuto in una settimana. Le forze israeliane stanno continuando ad attaccare le infrastrutture dell'ormai ex esercito siriano avanzando nell'area del Golan - denominando la nuova area d'occupazione “zona cuscinetto” - e distruggendo con i bombardamenti aerei infrastrutture – come il porto di Latakia - centri di ricerca ed industriali. Contemporaneamente gli attacchi delle milizie sostenute dalla Turchia si stanno concentrando sulle aree controllate dalle forze curde. Il quadro, ancora opaco, fa intravedere almeno per il momento il maggiore successo israeliano, turco, britannico e statunitense raggiunto nell'area negli ultimi anni. Oltre a Damasco, le forze sostenute dalla Turchia avrebbero già anche il controllo di Tartus, città costiera dove si trova la base navale russa. Il nesso degli eventi siriani con tutte le altre crisi del Vicino Oriente – su tutte, quella palestinese – è evidente: non meno evidente è il nesso di questi con la transizione transizione Biden – Trump. Se si tratti dell'ennesima mossa dell'amministrazione Biden pensata per mettere condizionare il successore, di una mossa volta ad anticipare la politica della nuova amministrazione o di un “do ut des” tra Mosca e Washington legato all'Ucraina diventerà chiaro nel 2025. Quello che è certo è che quanto è avvenuto in Siria nelle ultime ore non sarebbe potuto accadere senza l'avallo statunitense, visto anche il presidio delle truppe di Washington presso i pozzi petroliferi della parte nord-orientale dell'ormai ex-Siria ed i legami tra gli attori coinvolti con gli Stati Uniti. Mentre l'ex membro dell'ISIS e di al-Qaeda Abu Mohammed al-Jawlani - Ahmed al-Shara - viene presentato come l'uomo forte sulla scena, Mohammed al-Bashir è stato incaricato capo del gabinetto di transizione dopo un incontro con l'ex primo ministro siriano Mohammed al-Jalali: quest'ultimo era apparso poche ore prima scortato da uomini dell'HTS (acronimo di Hayat al Tahrir al Sham, “Organizzazione per la liberazione del Levante”) che hanno ormai il controllo della capitale Damasco. Questi elementi potrebbero spiegare le diserzioni di massa tra le forze armate siriane e come queste ultime abbiano rinunciato ad opporre una resistenza significativa all'avanzata delle milizie sostenute da Ankara.
Dopo oltre mille giorni di guerra su larga scala per l'Ucraina - e quasi quattromila per il Donbass - l'intermezzo tra la fine del mandato Biden e l'insediamento dell'amministrazione Trump assume in crescendo le caratteristiche di una delle fasi più incerte e più pericolose della storia contemporanea. Il via libera della Casa Bianca all'utilizzo di missili ATACMS in territorio russo è avvenuto in questa fase con il preciso intento di mettere nella maggiore difficoltà possibile il successore designato. Al quadro si aggiungono i nuovi pacchetti di assistenza militare appena concessi all’Ucraina e gli intenti della Casa Bianca di installare nuovi missili in Europa centro-orientale in funzione antirussa: intenti destinati a riportare il continente alla crisi degli Euromissili di metà anni ottanta.
La risposta del Cremlino alle mosse dell'amministrazione di Biden si è sostanziata nel lancio di un missile balistico sui territori ucraini – condotto per palesare la vulnerabilità delle difese antiaeree di produzione statunitense – e nella modifica della dottrina nucleare di riferimento: una modifica con cui si contempla in modo esplicito il possibile ricorso ad armi nucleari tattiche in risposta ad attacchi condotti con armi convenzionali. Questo passaggio contribuisce ad aumentare ulteriormente il rischio di guerra nucleare in Europa. L'Italia in particolare sarebbe particolarmente esposta ad attacchi vista la presenza sul territorio nazionale di importanti basi militari statunitensi: l'Europa - tutta - pagherebbe le maggiori conseguenze di uno scenario senza precedenti. Occorre avere ben chiaro che il rischio nucleare non è un bluff: scommettere sul contrario potrebbe contribuire a trascinare l'umanità in una spirale di distruzione che sarebbe molto difficile interrompere.
Già dal febbraio 2022 risultava chiaro che il tempo giocasse a favore del Cremlino: oggi questa valutazione trova una facile conferma nella situazione del campo. Quanto l'Ucraina avrebbe potuto ottenere nei negoziati del 2022 oggi è nient'altro che un'illusione. Per quanto le narrative sull'Ucraina abbiano subito una evidente trasformazione negli ultimi tempi - ammettendo l'inevitabilità del negoziato - le condizioni oggettive non possono essere certo dimenticate: il vantaggio acquisito potrebbe portare il Cremlino a rifiutare eventuali proposte di negoziato se queste trascurassero le condizioni sul terreno. Per questa ragione il possibile congelamento dei combattimenti ed il delinearsi di uno scenario coreano non è affatto scontato.
A proposito di Corea la presenza di militari nordcoreani sul fronte di Kursk è ormai un dato di fatto: presenza destinata a creare ulteriori problemi alle forze ucraine. Per l'esercito di Pyongyang ed i contingenti di questo inviati sul fronte ucraino si tratta di una svolta epocale, dal momento che ufficialmente le forze armate della Corea del nord non partecipano a missioni di combattimento dal 1953. Ma l'importanza del fatto in sé risulta secondaria riflettendo sul modello di mutua assistenza militare che Mosca sta testando con la Corea del Nord. Un futuribile meccanismo analogo potrebbe legare Mosca e Pechino per le reciproche necessità di carattere militare: per il momento sia Mosca che Pechino hanno interesse a non vincolarsi reciprocamente con accordi militari stringenti, ma il tempo potrebbe far mutare questa condizione in modo significativo.
Ulteriori sorprese precedenti all'insediamento di Trump alla Casa Bianca potrebbero essere tutt'altro che improbabili, ma come già anticipato nei mesi scorsi dall'ex consigliere presidenziale Aleksander Arestovich, il 2025 potrebbe effettivamente essere l'anno dell'uscita di scena di Volodymyr Zelensky. Coprire il fallimento dell'oltranzismo e l'uscita di scena dei suoi protagonisti con il presunto rispetto della sovranità ucraina potrebbe essere tutto sommato l'opzione meno sconveniente per affrontare il passaggio tra il prima ed il dopo.
I bombardamenti israeliani sul Libano non accennano a fermarsi, così come l’accanita resistenza di Hezbollah nel sud del paese. A Beirut, alcune zone sono diventate quartieri fantasma, mentre altre si stanno trasformando in un enorme campo profughi, con baracche e ripari di fortuna in quasi ogni angolo di strada. Il mio racconto delle ultime settimane libanesi per Krisis.
Beirut, gli effetti dell'ultimo bombardamento sulla città, condotto poco prima delle 15 di oggi pomeriggio: condotto, come i precedenti, con ordigni di fabbricazione statunitense l'attacco ha completamento raso al suolo un edificio di dieci piani - evacuato in precedenza – a pochi metri da un posto di blocco dell'esercito libanese e dal più grande parco della città, danneggiando un secondo edificio e incendiandone un terzo a poca distanza. Danneggiato. insieme a diverse decine di veicoli, anche un cimitero adiacente colpito dai calcinacci proiettati dall'esplosione. La conta delle vittime prosegue mentre sono attesi altri attacchi aerei già nelle prossime ore.