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27.02.202508:46
Le Solovki, un arcipelago di silenzio
Testo di Anna Maria Messuti
"Un conoscente mi chiede perché non scrivo mai niente dei suoni qui alle Solovki, e parlo invece solo dei colori e delle forme. Perché qui tutto è senza suoni, come nei sogni. È il regno del silenzio."
Così Pavel Florenskij cattura l’essenza delle Solovki: un luogo in cui il silenzio non è assenza, ma custodia stessa della sofferenza umana.
Su queste isole, situate nell'Estremo Nord della Russia e un tempo abitate dall’antico popolo dei Sami, nel XV secolo approdarono due monaci, Zosima e Savvatij, in cerca di un rifugio lontano dal rumore del mondo. Ispirati dai Padri del deserto, fondarono un monastero e vi edificarono chiese, canali e mulini, creando un’oasi autosufficiente.
Dalla chiesa che domina il Monte Sekirnaja ai giardini botanici, dove fioriscono rare rose artiche, ogni angolo racconta storie di epoche lontane. Qui, nel XVII secolo, i Vecchi Credenti, che si opponevano alle riforme del patriarca Nikon, furono sconfitti dagli strelizzi dello zar Aleksej Michajlovič.
Percorrendo i sentieri che serpeggiano tra mura secolari e labirinti megalitici, il silenzio è interrotto soltanto dall’eco di un’onda solitaria o dal grido di un gabbiano, mentre tutt’intorno predomina una natura incontaminata e di eccezionale bellezza.
Le Solovki appaiono come un ossimoro vivente: un paradiso naturale segnato dall'orrore umano, ma anche un santuario che, rinato dall'abbandono, continua ancora oggi a raccontare storie di resistenza e speranza.
Foto di Sergey Veretennikov
Cultura Italia-Russia
Testo di Anna Maria Messuti
"Un conoscente mi chiede perché non scrivo mai niente dei suoni qui alle Solovki, e parlo invece solo dei colori e delle forme. Perché qui tutto è senza suoni, come nei sogni. È il regno del silenzio."
Così Pavel Florenskij cattura l’essenza delle Solovki: un luogo in cui il silenzio non è assenza, ma custodia stessa della sofferenza umana.
Su queste isole, situate nell'Estremo Nord della Russia e un tempo abitate dall’antico popolo dei Sami, nel XV secolo approdarono due monaci, Zosima e Savvatij, in cerca di un rifugio lontano dal rumore del mondo. Ispirati dai Padri del deserto, fondarono un monastero e vi edificarono chiese, canali e mulini, creando un’oasi autosufficiente.
Dalla chiesa che domina il Monte Sekirnaja ai giardini botanici, dove fioriscono rare rose artiche, ogni angolo racconta storie di epoche lontane. Qui, nel XVII secolo, i Vecchi Credenti, che si opponevano alle riforme del patriarca Nikon, furono sconfitti dagli strelizzi dello zar Aleksej Michajlovič.
Percorrendo i sentieri che serpeggiano tra mura secolari e labirinti megalitici, il silenzio è interrotto soltanto dall’eco di un’onda solitaria o dal grido di un gabbiano, mentre tutt’intorno predomina una natura incontaminata e di eccezionale bellezza.
Le Solovki appaiono come un ossimoro vivente: un paradiso naturale segnato dall'orrore umano, ma anche un santuario che, rinato dall'abbandono, continua ancora oggi a raccontare storie di resistenza e speranza.
Foto di Sergey Veretennikov
Cultura Italia-Russia
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04.02.202507:52
Devana: La Signora delle Foreste e della Luna
Testo di Anna Maria Messuti
In una notte di luna piena, quando il confine tra il mondo umano e quello selvaggio si assottiglia fino a svanire, un’ombra danza agile, accompagnata dall’ululato dei lupi e dal fruscio delle foglie. È Devana, una delle figure più affascinanti e misteriose del pantheon slavo, figlia di Perun, dio del tuono, e moglie di Svjatobor, il dio delle foreste delle antiche leggende slave.
Come Artemide per i Greci o Diana per i Romani, Devana regna sugli animali selvatici e sui territori incontaminati. Nelle tradizioni slave, però, il suo carattere è più sfaccettato, a volte persino contraddittorio: è una protettrice, ma anche una predatrice; una figura materna per chi rispetta i boschi, ma una minaccia per chi li viola. Non a caso, in alcune regioni slave, si credeva che i cacciatori imprudenti potessero incontrare il suo sguardo furioso tra le nebbie mattutine, trasformandosi in pietra o perdendosi per sempre tra gli alberi.
La sua associazione con la luna aggiunge un ulteriore velo di mistero, poiché Devana incarna elementi opposti: è fuoco, movimento e istinto.
Nelle notti di plenilunio, le donne delle comunità rurali le dedicavano canti e offerte, chiedendo fertilità o protezione durante i parti. Un’usanza che ricorda i khorovod (хоровод), le danze circolari tradizionali, spesso legate ai cicli naturali e a divinità femminili come le rusalke.
La figura di Devana assume un significato quasi profetico, poiché ci ricorda che la natura non è un “luogo da conquistare”, ma una forza con cui dialogare, che esige rispetto.
Forse, nelle sere d’inverno, quando il vento ulula tra i rami spogli, è ancora lei a cavalcare l’orso sacro, sfidando chiunque osi dimenticare il potere antico e indomabile della natura.
Immagine: Andrej Šiškin, "Devana", 2013.
Cultura Italia-Russia
Testo di Anna Maria Messuti
In una notte di luna piena, quando il confine tra il mondo umano e quello selvaggio si assottiglia fino a svanire, un’ombra danza agile, accompagnata dall’ululato dei lupi e dal fruscio delle foglie. È Devana, una delle figure più affascinanti e misteriose del pantheon slavo, figlia di Perun, dio del tuono, e moglie di Svjatobor, il dio delle foreste delle antiche leggende slave.
Come Artemide per i Greci o Diana per i Romani, Devana regna sugli animali selvatici e sui territori incontaminati. Nelle tradizioni slave, però, il suo carattere è più sfaccettato, a volte persino contraddittorio: è una protettrice, ma anche una predatrice; una figura materna per chi rispetta i boschi, ma una minaccia per chi li viola. Non a caso, in alcune regioni slave, si credeva che i cacciatori imprudenti potessero incontrare il suo sguardo furioso tra le nebbie mattutine, trasformandosi in pietra o perdendosi per sempre tra gli alberi.
La sua associazione con la luna aggiunge un ulteriore velo di mistero, poiché Devana incarna elementi opposti: è fuoco, movimento e istinto.
Nelle notti di plenilunio, le donne delle comunità rurali le dedicavano canti e offerte, chiedendo fertilità o protezione durante i parti. Un’usanza che ricorda i khorovod (хоровод), le danze circolari tradizionali, spesso legate ai cicli naturali e a divinità femminili come le rusalke.
La figura di Devana assume un significato quasi profetico, poiché ci ricorda che la natura non è un “luogo da conquistare”, ma una forza con cui dialogare, che esige rispetto.
Forse, nelle sere d’inverno, quando il vento ulula tra i rami spogli, è ancora lei a cavalcare l’orso sacro, sfidando chiunque osi dimenticare il potere antico e indomabile della natura.
Immagine: Andrej Šiškin, "Devana", 2013.
Cultura Italia-Russia
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22.02.202512:55
Osip Mandel’štam e Nadežda, il potere della parola
Osip, il poeta "dalle suole di vento" che un'epoca di lupi rese un novello Ulisse senza porti né Itache e Nadežda, custode della memoria poetica del marito.
Il "gemello letterario" di Anna Akhmatova era nato a Varsavia e si era formato a Pietroburgo mentre alla Sorbona aveva conosciuto Gumilëv, fondatore dell'Acmeismo e futuro marito dell'Akhmatova.
Amante dei classici greci e latini, oltre alla passione per la letteratura medievale francese e l'arte veneziana del Rinascimento, Osip leggeva Dante in italiano e Goethe in tedesco.La sua erudizione non gli impediva di ammirare, con la stessa passione, i colori del cielo, la terra gialla dell'Armenia e le creature della natura.
Tra tutti i poeti dell'Età dell'Argento era il più fragile ed indifeso ma il più temuto dal potere che, dopo averlo emarginato, gli tolse la libertà e la vita. La ragione, secondo Brodskj, risiede nel fatto che "un poeta si mette nei guai non tanto per le sue idee quanto per la sua superiorità linguistica" ed Osip, come "uno schiavo che aveva vinto la paura", componeva poesie che mettevano in discussione tutto l'ordine esistenziale.
Poeta puro, creava i suoi versi camminando e borbottando per poi dettarli alla fedele Nadezhda che nascose e divulgó le poesie del marito tra mille pericoli imparando ad essere "ferma come l'acqua e bassa come l'erba".
Negli ultimi tempi della sua vita Nadežda si chiedeva continuamente se aveva fatto capire al marito con sufficiente chiarezza quanto lo amava e quanto lui fosse importante per lei. Nelle sue memorie scrisse:"Non so dove sei. Se mi senti. Se sai quanto ti amo. Non ho fatto in tempo a dirti quanto ti amo. E non so dirlo nemmeno adesso. Dico solo: per te, per te… Sei sempre con me, e io, selvaggia e cattiva, io che non ho mai saputo piangere, adesso piango, piango, piango."
https://t.me/cultura_itru
Osip, il poeta "dalle suole di vento" che un'epoca di lupi rese un novello Ulisse senza porti né Itache e Nadežda, custode della memoria poetica del marito.
Il "gemello letterario" di Anna Akhmatova era nato a Varsavia e si era formato a Pietroburgo mentre alla Sorbona aveva conosciuto Gumilëv, fondatore dell'Acmeismo e futuro marito dell'Akhmatova.
Amante dei classici greci e latini, oltre alla passione per la letteratura medievale francese e l'arte veneziana del Rinascimento, Osip leggeva Dante in italiano e Goethe in tedesco.La sua erudizione non gli impediva di ammirare, con la stessa passione, i colori del cielo, la terra gialla dell'Armenia e le creature della natura.
Tra tutti i poeti dell'Età dell'Argento era il più fragile ed indifeso ma il più temuto dal potere che, dopo averlo emarginato, gli tolse la libertà e la vita. La ragione, secondo Brodskj, risiede nel fatto che "un poeta si mette nei guai non tanto per le sue idee quanto per la sua superiorità linguistica" ed Osip, come "uno schiavo che aveva vinto la paura", componeva poesie che mettevano in discussione tutto l'ordine esistenziale.
Poeta puro, creava i suoi versi camminando e borbottando per poi dettarli alla fedele Nadezhda che nascose e divulgó le poesie del marito tra mille pericoli imparando ad essere "ferma come l'acqua e bassa come l'erba".
Negli ultimi tempi della sua vita Nadežda si chiedeva continuamente se aveva fatto capire al marito con sufficiente chiarezza quanto lo amava e quanto lui fosse importante per lei. Nelle sue memorie scrisse:"Non so dove sei. Se mi senti. Se sai quanto ti amo. Non ho fatto in tempo a dirti quanto ti amo. E non so dirlo nemmeno adesso. Dico solo: per te, per te… Sei sempre con me, e io, selvaggia e cattiva, io che non ho mai saputo piangere, adesso piango, piango, piango."
https://t.me/cultura_itru
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16.02.202517:36
Il kokoshnik, un simbolo di identità ed evoluzione
Serafima Zlobina è una giovane artista di San Pietroburgo, che ha trasformato il kokoshnik, l’iconico copricapo della tradizione russa, in un simbolo di creatività contemporanea.
A soli 22 anni, mentre completava gli studi all’Accademia Stieglitz, un esperimento surrealista per un servizio fotografico l’ha portata a plasmare il suo primo kokoshnik.
In seguito i suoi kokoshnik sono diventati il segno distintivo della band folk Uzoritsa mentre la sua creazione "Cigni d'inverno" è stata ammirata in uno degli spettacoli sul ghiaccio di Evgenij Pljuščenko.
Ogni creazione di Serafima integra motivi tradizionali con un’estetica audace mescolando ricami tradizionali a dettagli futuristici.È come un universo in miniatura, dove la Cattedrale di San Basilio dialoga con funghi magici, cigni innevati e uccelli fiabeschi.
La base prende vita attraverso un mosaico di materiali inattesi: tessuti d’epoca, velluto, pizzi ingialliti dal tempo, ma anche plastilina, foglia d’alluminio e strass.
Dietro ogni opera c’è un’alchimia di pazienza e visione ma nessuno è mai solo un accessorio. “Sono performance che coinvolgono lo spettatore come uno spettacolo”, spiega Serafima.
Muovendosi tra passato e presente, Serafima ridefinisce l’identità culturale russa, dimostrando che la tradizione non è un museo, ma un linguaggio vivo. I suoi kokoshnik, carichi di perle e simboli, non decorano solo il capo: raccontano storie senza tempo, dove eleganza e audacia danzano insieme, e ogni dettaglio è un invito a guardare il passato con occhi nuovi.
Serafima Zlobina è una giovane artista di San Pietroburgo, che ha trasformato il kokoshnik, l’iconico copricapo della tradizione russa, in un simbolo di creatività contemporanea.
A soli 22 anni, mentre completava gli studi all’Accademia Stieglitz, un esperimento surrealista per un servizio fotografico l’ha portata a plasmare il suo primo kokoshnik.
In seguito i suoi kokoshnik sono diventati il segno distintivo della band folk Uzoritsa mentre la sua creazione "Cigni d'inverno" è stata ammirata in uno degli spettacoli sul ghiaccio di Evgenij Pljuščenko.
Ogni creazione di Serafima integra motivi tradizionali con un’estetica audace mescolando ricami tradizionali a dettagli futuristici.È come un universo in miniatura, dove la Cattedrale di San Basilio dialoga con funghi magici, cigni innevati e uccelli fiabeschi.
La base prende vita attraverso un mosaico di materiali inattesi: tessuti d’epoca, velluto, pizzi ingialliti dal tempo, ma anche plastilina, foglia d’alluminio e strass.
Dietro ogni opera c’è un’alchimia di pazienza e visione ma nessuno è mai solo un accessorio. “Sono performance che coinvolgono lo spettatore come uno spettacolo”, spiega Serafima.
Muovendosi tra passato e presente, Serafima ridefinisce l’identità culturale russa, dimostrando che la tradizione non è un museo, ma un linguaggio vivo. I suoi kokoshnik, carichi di perle e simboli, non decorano solo il capo: raccontano storie senza tempo, dove eleganza e audacia danzano insieme, e ogni dettaglio è un invito a guardare il passato con occhi nuovi.
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12.02.202507:54
Il Vaso di Kolyvan: un capolavoro di pietra e storia
Testo di Anna Maria Messuti
Il Vaso di Kolyvan, considerato «la Regina dei vasi», è il più grande vaso del mondo.
Commissionato dallo zar Nicola I e realizzato tra il 1829 e il 1843, questo imponente manufatto in diaspro verde raggiunge i 2,57 metri di altezza e pesa 19 tonnellate. La sua particolarità sta nell’essere stato scolpito da un unico blocco di pietra, estratto ai piedi del monte Revnjucha, negli Altaj siberiani. La scelta del diaspro non fu casuale: oltre alla straordinaria resistenza, questa pietra aveva un profondo significato sacro per le popolazioni locali, simboleggiando forza e immortalità.
Ci vollero 14 anni di lavoro ininterrotto da parte degli artigiani della fabbrica di Kolyvan, che scolpirono con maestria ogni dettaglio: dalle foglie d’acanto ai tralci di vite intrecciati, fino a un fregio che unisce motivi neoclassici a richiami dell’arte scitica, antica cultura della regione.
Il trasporto dalla remota Kolyvan a San Pietroburgo fu un’autentica odissea. Per mesi, un convoglio di slitte trainate da cavalli attraversò 2.800 chilometri di steppe ghiacciate, fiumi e montagne. La sala dell’Ermitage che oggi lo ospita fu completata solo dopo il suo posizionamento, poiché gli accessi esistenti non ne avrebbero consentito l’ingresso.
Si racconta che, mentre Prokof’ev componeva la musica per il balletto "Il fiore di pietra", si recasse spesso ad ammirarlo, forse in cerca d’ispirazione.
C’è qualcosa di straordinario nel legame tra queste due opere: entrambe incarnano la ricerca della perfezione, il trionfo della maestria umana e la capacità di superare prove ardue. Così come Danila, protagonista del balletto, sogna di creare il fiore perfetto per la sua amata riuscendoci solo attraverso sacrifici immani, anche il vaso-monolite sembra custodire le storie di uomini che, in un’epoca difficile, sfidarono i limiti del possibile.
Cultura Italia-Russia
Testo di Anna Maria Messuti
Il Vaso di Kolyvan, considerato «la Regina dei vasi», è il più grande vaso del mondo.
Commissionato dallo zar Nicola I e realizzato tra il 1829 e il 1843, questo imponente manufatto in diaspro verde raggiunge i 2,57 metri di altezza e pesa 19 tonnellate. La sua particolarità sta nell’essere stato scolpito da un unico blocco di pietra, estratto ai piedi del monte Revnjucha, negli Altaj siberiani. La scelta del diaspro non fu casuale: oltre alla straordinaria resistenza, questa pietra aveva un profondo significato sacro per le popolazioni locali, simboleggiando forza e immortalità.
Ci vollero 14 anni di lavoro ininterrotto da parte degli artigiani della fabbrica di Kolyvan, che scolpirono con maestria ogni dettaglio: dalle foglie d’acanto ai tralci di vite intrecciati, fino a un fregio che unisce motivi neoclassici a richiami dell’arte scitica, antica cultura della regione.
Il trasporto dalla remota Kolyvan a San Pietroburgo fu un’autentica odissea. Per mesi, un convoglio di slitte trainate da cavalli attraversò 2.800 chilometri di steppe ghiacciate, fiumi e montagne. La sala dell’Ermitage che oggi lo ospita fu completata solo dopo il suo posizionamento, poiché gli accessi esistenti non ne avrebbero consentito l’ingresso.
Si racconta che, mentre Prokof’ev componeva la musica per il balletto "Il fiore di pietra", si recasse spesso ad ammirarlo, forse in cerca d’ispirazione.
C’è qualcosa di straordinario nel legame tra queste due opere: entrambe incarnano la ricerca della perfezione, il trionfo della maestria umana e la capacità di superare prove ardue. Così come Danila, protagonista del balletto, sogna di creare il fiore perfetto per la sua amata riuscendoci solo attraverso sacrifici immani, anche il vaso-monolite sembra custodire le storie di uomini che, in un’epoca difficile, sfidarono i limiti del possibile.
Cultura Italia-Russia
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